Seminari

La percezione del bello - Alma Di Mattia

Un'analisi accurata del concetto del bello nella sua percezione storica condotta da Alma Di Mattia, esperta d'arte e di letteratura, con una presentazione grafica di grande qualità e chiarezza che può essere consultata accedendo all'allegato. Eè disponibile anche il file audio che puo essere ascoltato in contemporanea alla visione delle slides in modalità manuale.

Audio: 
Allegati: 

Leggere le donne tra arte e poesia - Mirella Tribioli

L'8 marzo, è la ricorrenza della “Giornata internazionale della donna”, essa vuole ricordare la distinzione di genere, non paritaria, che ancora le donne, subiscono in tante parti del mondo, nonché le conquiste sociali, politiche ed economiche che sono addivenute tramite le loro lotte, nei corsi dei tanti anni e, particolarmente nel XX secolo, nella rivendicazione dei diritti politici quali il suffragio universale. Promotrice, sostenitrice del “diritto di voto” fu, nel 1907, la marxista tedesca Rosa Luxemburg. Va ricordato che le rivendicazioni presero animo dai partiti socialisti e comunisti. Questo riconoscimento della giornata per la donna fu ufficializzato dapprima negli Stati Uniti nel 1909, a seguire in alcuni Paesi europei nel 1911 e in Italia nel 1922. La celebrazione della giornata, invece, è avvenuta nel tempo, nei vari Paesi, con date diverse: alla fine di febbraio negli Stati Uniti, intorno alla metà di marzo in alcuni Paesi europei, a maggio in Svezia e comunque sempre in concomitanza di altre ricorrenze. Come conferma di tante lotte, l’ONU nel 1975 proclamò “L’Anno internazionale delle donne”, ribadito nell’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1977. L’8 marzo fu scelta come data ufficiale. Data che vuole ricordare la tragedia del 1908 della fabbrica di Cotton di New York, in verità confusa con il reale dramma dell’incendio della fabbrica di Triangle, dove morirono 146 lavoratori di cui 123 donne, immigrate italiane ed ebraiche, e 23 uomini. La mimosa, fiore che esplode nella fioritura tra febbraio e marzo, è diventato il simbolo italiano di questa giornata, soprattutto perché già adoperato l’8 marzo 1946, primo anno dalla fine della seconda guerra mondiale. Ecco, è perché siamo prossimi a questa data che onora le donne, che mi è venuta idea di parlare di Vittoria Colonna, perché è colei che ha saputo far parlare della sua virtù e, prima fra le donne del Rinascimento, della sua arte poetica, portando l’attenzione sulla scrittura al femminile, cosa che fino ad allora era impensabile. Infatti dopo Saffo c’era stato il nulla, solo tanti anni di silenzio. E’ proprio con Vittoria Colonna insieme ad altre poetesse del suo tempo come Veronica Gambara, Gaspara Stampa ecc., che abbiamo nella letteratura l’affermazione di donne. Il tema del petrarchismo promosso dal Bembo ed allora in voga, era adatto alla loro sensibilità amorosa e possiamo dire che il petrarchismo, particolarmente, fu fatto proprio dalle poetesse e che il ‘500 sia sostanzialmente il secolo delle poetesse. Ce ne furono tantissime, più di quante ne avesse conosciuto fino allora la storia della letteratura, anche internazionale, infatti come codice di comunicazione raffinato fu fenomeno spagnolo, portoghese, francese, inglese, ma anche adatto a chi ambiva ad una certa elevazione. Donne che, però, per guadagnare la dignità dovevano comunque attenere al modello spirituale e letterario della cultura maschile, appunto a quel petrarchismo, che sviluppò sul finire del ‘300, nel ‘400 e soprattutto nel ‘500 e che prese a modello “Il Canzoniere” del Petrarca nei temi di amore, felicità, tormento, solitudine e morte; nelle immagini; nelle figure stilistiche; nella lirica nutrita di retorica classica, ma filtrata da una poesia provenzale. In che cosa consisteva questo petrarchismo? Secondo lo scrittore del tempo, Pietro Bembo, i caratteri potevano essere individuati nell’amore platonico e nella contemplazione della bellezza ideale, in quanto Il vero amore deve tendere alla perfezione, perché solo dall’amore divino arriva la felicità. Importante è, quindi, la ricerca della bellezza per la creazione della poesia e imitare la lingua del Petrarca che è il modello per la poesia stessa. L’ opera petrarchesca non venne, però in nessun modo, uguagliata da nessuno scrittore. I poeti particolarmente del ‘500, infatti, si attestarono per lo più in componimenti di mero esercizio o di interpretazione della propria persona. Tra i petrarchisti ricordiamo anche il grande Michelangelo Buonarroti, che confluì nella sua poesia tutto il suo forte “ego”. Questo modello di poesia fu, dunque, più congeniale alle donne e ne accrebbe l’importanza sociale, senza dimenticare, però, che il ritratto della donna di questo secolo è quello di una creatura sì gentile, ma che doveva stare al suo posto, perché comunque inferiore, capace in rari casi (perché lo studio non era per tutti, ma solo per qualcuna di nascita nobilissima, ad esempio Lucrezia Borgia) di letteratura, pittura, musica da condividere, controllata, nel salotto di casa. Donne che vivevano nella lirica d’amore del secolo, nei sonetti petrarcheschi, appunto, l’amore platonico. Creature idealizzate, non vere, non diverse dalle dame dei trovatori di Provenza di quattro secoli prima. (Anche se rispetto al fare della poesia predominante, va ricordato che già allora qualche letterato, come Cielo D’Alcamo della Scuola siciliana o a seguire Cecco Angiolieri della poesia comico realistica toscana e lo stesso Boccaccio, si attardavano a descrivere una donna più reale) Per queste donne del Rinascimento, poco era cambiato, non c’erano stati progressi rispetto ai secoli precedenti, relegate come erano ai padri ed ai mariti, escluse dal mondo. Si era spose o cortigiane. Cortigiane nel senso più riprovevole della parola. Significativo, a proposito il dire di uno scrittore del tempo Baldassare Castiglione ne “Il Cortegiano”, la sua opera più famosa, che nel delineare questa figura rende il cortigiano “nobiluomo”. Declinato al femminile la cortigiana era, invece, la prostituta. Poiché il petrarchismo era vissuto dalle poetesse e dalle cortigiane, è bene spiegare, però, che per termine cortigiana, in questo caso, fosse da intendere solamente l’accezione di “dama di corte colta”, senza riferimento in nessun modo ad alcuna ambiguità di natura sessuale, confermata dalla vita specchiata di alta morale delle stesse, in quello che era il dettame dello spirito petrarchista, ispiratore del loro sentire, della loro arte. Vittoria Colonna, la virtuosissima, figura alta e viva del Rinascimento, era sicuramente annoverata tra le poetesse, tra le spose. Nacque nel castello feudale di Marino, sui meravigliosi Colli Albani nel 1490 o come da nuovi studi nel 1492, da Fabrizio Colonna signore di Paliano e gran conestabile (alto dignitario di corte) di Napoli e da Agnese di Montefeltro, figlia del duca d’Urbino e d’una Sforza di Pesaro. La sua prima età fu poco serena in quanto il dominio della sua casata era contrastato dalla tracotanza dei Borgia. Suo padre Fabrizio si era distinto con Carlo VIII nella conquista del regno di Napoli, ma non avendo avuto adeguato riconoscimento per la sua impresa, era passato agli Aragonesi, di conseguenza, per cercare protezione, si era alleato con la famiglia d’Avalos, sostenitrice degli Spagnoli. Per meglio sugellare questo patto di alleanza, le famiglie si erano accordate, tra l’altro, per il matrimonio dei loro figlioli, è così che a soli sette anni, Vittoria fu promessa sposa a Ferdinando Francesco, detto Ferrante, d’Avalos, marchese di Pescara. Nel 1501 le terre dei Colonna furono saccheggiate dai Francesi e il papa AlessandroVI Borgia, nel suo patto filofrancese, confiscò i loro beni. La famiglia Colonna si spostò, quindi, ad Ischia presso i d’Avalos, dove rimase ospite per lungo tempo, anche perché nel frattempo la diciannovenne Vittoria con fastosissime nozze, celebrate nel 1509 nel Castello aragonese di Ischia, era diventata sposa di Ferrante: bella nell’incarnato di un viso adornato da chiome dai riflessi dorati, trapunti di fiori leggeri (come testimonia un dipinto di Michelangelo), affascinante nel suo vestito di broccato bianco con rami d’oro, adornata di un mantello azzurro. Bellezza che fu recitata da diversi poeti come Ludovico Ariosto, che nell’Orlando Furioso in riferimento al suo nome l’acclama “nata fra le vittorie”, alla stregua delle donne più importanti della mitologia. Anche Bernardo Tasso, padre di Torquato la sentì musa e così i suoi amici poeti umanisti, che in stile petrarchesco scrissero per lei poesie pervase di nostalgia e spiritualismo. I due giovani, in realtà erano entrambi colti e di rara bellezza e al di là del matrimonio combinato, si innamorarono e con autentico amore avviarono una felice vita matrimoniale che fu interrotta, però ben presto, dalle aspirazioni militari di Ferrante. Nel frattempo Papa Giulio II aveva promosso una lega antifrancese per quella che era la guerra che opponeva Ferdinando il Cattolico al re di Francia Luigi XII, a cui aveva aderito anche il re di Napoli. Insieme al suocero Fabrizio Colonna, uomo d’armi di spessore, celebrato anche da Machiavelli nei suoi “Dialoghi sull’arte della guerra”, Ferrante prese decisione di partecipare alla guerra della lega, esponendosi in diverse battaglie contro i Francesi stessi, tanto che in una, nel 1512, furono fatti prigionieri. Fu per questa occasione che Vittoria compose uno dei suoi primi scritti poetici “L’epistola” in versi, che bella nel suo tema di lontananza, lamenta con squisitezza di scrittura, il dolore per il distacco del proprio amato. Fu questo il tempo in cui Vittoria, limò il suo carattere morale e la sua cultura, supportata dalla presenza colta di Costanza d’Avalos, duchessa di Francavilla (per alcuni studiosi l’ispiratrice della Gioconda di Leonardo), che a sua volta amava circondarsi di letterati umanistici. Per sostenere la fama valorosa del marito, frequentò la mondanità della corte aragonese e gli ambienti di cultura di Napoli e Ischia, conoscendo molte personalità come Sannazaro ecc. Profondamente religiosa e ricca di virtù morali, già alla morte di suo marito nel 1525, causata dalle infermità seguite ai combattimenti, espresse forte volontà di ritirarsi in convento a Roma, dove pure fece qualche esperienza, peregrinando successivamente dall’uno all’altro monastero, contrastata nel prendere il velo dal papa Clemente VII e da suo fratello Ascanio, che la convinse a ritornare a Marino, anche per sanare i cattivi rapporti tra la Chiesa ed i Colonna stessi, cosa che non fece comunque recedere Clemente VII dall’abbattimento del castello marinese. Vittoria, passando per Napoli ritornò allora al caro rifugio di Ischia, dove rimase quasi ininterrottamente fino al 1536. Qui nel suo spirito di fede e carità accolse le tante sventurate vittime del sacco di Roma da parte dei Lanzichenecchi del 1527. Diede il suo contributo per salvare lo stesso papa, che per riconoscimento gli diede in dono il feudo di Pescocostanzo, che da quel tempo, per il suo apporto culturale, migliorò tantissimo il suo aspetto urbanistico secondo il canone rinascimentale, di cui ancora oggi gode testimonianza. Per le sue qualità morali e la sua cultura, Vittoria fu stimata da imperatori e papi, le fu amico il cardinale Bembo. Paolo III Farnese, papa dal 1534, tenne in considerazione i suoi consigli per la Chiesa e perfino per la nomina dei porporati. Donna intelligente partecipò ai dibattiti teologici del tempo (1538/1540), era questo un momento travagliato per le incipienti teorie luterane, che porteranno a seguire alla Riforma e alla Controriforma. Aperta al dialogo luterano, si avvicinò ai porporati progressisti che caldeggiavano lo spirito primitivo del Vangelo, anche per evitare uno scisma. Questa sua scelta la rese invisa ad alcuni che la considerarono eretica, condizione che compromise la sua sepoltura, con la scomparsa delle sue spoglie mortali. A Roma, conobbe, Michelangelo (1538) che si legò a lei di grande amicizia e con il quale tenne un continuo carteggio, espressione delle loro travagliate vite. Si racconta che questa relazione amicale riuscì, addirittura, a mitigare il carattere dell’artista. Nella scia di quello che era il platonismo amoroso ascetico verso Dio, canone prettamente petrarchista, il tanto discusso amore tra Michelangelo e Vittoria non fu, dunque, altro che quello di due anime gemelle bramose di bellezza spirituale e nel suo significato morale il provvidenziale incontro di Dante con la sua Beatrice. Vittoria morì nel 1547 confortata dalla presenza del suo amico, che attonito le tenne le mani sino al momento estremo. Il pittore la onorò con alcune sue opere, oltre al ritratto già citato, ricordiamo una Pietà e la Crocifissione: disegni molto espressivi, a gessetto su carta. Vittoria Colonna raffinata poetessa, fu sicuramente tra i petrarchisti, quella più degna di nota, tanto che è della critica l’appellativo “la Petrarca al femminile”. I temi le sono pertinenti, tutti: il dissidio interiore, l’amore che procura la felicità ed il tormento, le emozioni devastanti che portano al malessere fisico, il senso attanagliante di solitudine, l’amore che brama la morte, per porre fine alla sofferenza ecc. La sua produzione poetica può essere divisa in tre periodi, nel primo datato prima del 1538, troviamo rime amorose e rime spirituali; tra il 1538/1540 ancor di più rime denuncianti il sofferto problema religioso e tra il 1540/1547 il tema religioso stesso diventa più dominante, il motivo primario di riflessione della sua lirica. Le rime amorose sono la dichiarazione di tutta la sua sofferenza nel sentimento di solitudine per la lontananza dell’amato in guerra, nel desolante abbandono al dolore, per l’ingrata sorte avuta, la prematura funesta morte del marito. Passano gli anni di vedovanza, ma non cessa il pianto per la morte del suo amato bene. Le rime sono la testimonianza ancora della sua costanza di amore e fedeltà e o che si trovi nella sua dimora o in convento, non cambia lo sfogo di scrivere “del bel sole perduto”. Giovane e bella come era, nei suoi trentacinque anni, aveva molti pretendenti, graditi per ragioni politiche ai suoi fratelli, ma il suo diniego era netto, solita nel dire che “Il suo sole dagli altri reputato morto, per lei era ancora vivo”. La sua raccolta poetica è il primo Canzoniere femminile (1538) e inevitabilmente diviene riferimento per le scrittrici del tempo. Ad imitatio del Canzoniere petrarchesco suddivide l’opera in due parti, In vita ed in morte dell’amato, usando una fedeltà al modello sino a comporre “i centoni”, l’utilizzo dei versi altrui. Del Petrarca respira anche le descrizioni del creato e della natura. Quella natura che è la cornice dei vari posti in cui dimora, testimoniata nei diversi componimenti dove il riferimento del verde fiume e dell’azzurro mare, diventa simbiotico dei suoi sentimenti di amore, solitudine, di nobiltà d’animo. Intrigante è la figura a tutto tondo di Vittoria Colonna. Belle le sue poesie dallo stile uniforme ed armonioso, dai sentimenti di amore vero, che si posano sul cuore. A quale strazio la mia vita adduce Amor, che oscuro il chiaro sol mi rende, e nel mio petto al suo apparire accende maggior disio della mia vaga luce Tutto il bel che natura a noi produce, che tanto aggrada a chi men vede e intende, più di pace mi toglie, e sì m'offende, ch' a più caldi sospir mi riconduce. Se verde prato e se fior vari miro, priva d'ogni sp'eranza trema l'alma: ché rinverde' Il pensier del suo bel frutto che morte svelse. A lui la grave salma tolse un dolce e brevissimo sospiro, e a me lasciò l'amaro eterno lutto. Mirella Tribioli

Audio: 

"La Vergine delle Rocce"

La scrittrice, poetessa e critico d'arte Maria Fondi, nell'ambito dei "seminari in 15 minuti" organizzati dall'Associazione Frascati Poesia illustra il celebre dipinto "La Vergine delle Rocce" di Leonardo da Vinci del quale mette in evedenza gli aspetti più suggestivi del gigante delle arti e delle scienze.
Audio: 

La scienza trasgressiva che genera mostri

La scrittrice, poetessa e critico letterario Patrizia Pallotta, nell'ambito dei seminari in 15 minuti organizzati dall'Associazione Frascati Poesia illustra il tema della paura genarata dalla scienza "trasgressiva" quella che travalica l'etica nella letteratura.

L'adorazione dei Magi - Gentile da Fabriano

Presentazione a cura di Arnaldo Colasanti
Letio magistralis dello scrittore, giornalista e critico d'arte Arnaldo Colasanti nella illustrazione iconografica del celebre dipinto di Gentile da Fabriano "L'Adorazione dei Magi" - AUDIO
Audio: 

Il fondamento valoriale della vita - Relatore il Prof. Renzo Maggiore

Cosa è veramente importante per te? Quali sono le parole che, solo a pronunciarle, ti danno energia? Dietro ogni decisione e azione c’è sempre una ‘filosofia’, più o meno consapevole, un mettere sulla bilancia i valori (personali e sociali) che danno un senso al gioco dei comportamenti. In base all’Etica (ossia la branca della Filosofia che studia i valori) si stabiliscono obiettivi, si investono risorse, si fa politica e, non di rado, si entra in conflitto, soprattutto per l’incapacità di riconoscere le basi valoriali dei comportamenti, il meccanismo interno che innesca le emozioni, nonché la relatività del proprio punto di vista, dipendente dal condizionamento del contesto famigliare e culturale, oltre che dallo sviluppo di una propria percezione del mondo. Dunque, chiedersi quali sono le parole che ci muovono di più non è affatto un passo secondario perché ci aiuta a conoscerci più a fondo e a comprendere i processi della comunicazione.La rivoluzione psicologica e culturale parte dalla consapevolezza che gli stati d’animo sono una nostra responsabilità. La consapevolezza sui processi mentali e sociali porta ad una presa di responsabilità totale, che non fornisce più scuse pei i nostri comportamenti incoerenti, inopportuni, se non addirittura violenti. La violenza, in qualsiasi forma, altro non è se non l’estrema dimostrazione pratica dell’ignoranza, della superficialità di giudizio e dell’assenza di una vera spiritualità. Solo attraverso il ragionamento e il sentimento di uomini intellettualmente liberi, vi può essere un cambiamento nella gerarchia dei valori e un equilibrato confronto tra ‘filosofie’ che porta a costruire relazioni sane. I pensatori illuminati stimolano e a volte creano nuovi paradigmi che possono portare ad effetti sociali duraturi, il cui segno positivo non è affatto scontato. La ‘filosofia’ di un singolo può diffondersi fino ad innescare macro rivoluzioni; ma la rivoluzione più importante è quella che avviene dentro noi stessi nel momento in cui non troviamo più giustificazioni alla sofferenza ed anzi ammettiamo di essere i principali responsabili della nostra condizione. La Carta di Valori è un bussola che facilita scelte e relazioni. Il valori altro non sono che enormi contenitori di significato, che vanno necessariamente indagati (dentro e fuori di sé) se l’intento è quello di comprendersi davvero e di condividere obiettivi motivanti. Vi sono alcuni valori definiti proprio “contenitore” perché altro non sono che spazi in cui i veri valori caratterizzano le dinamiche di comportamento del sistema: ad esempio in Famiglia ciò che conta è l’atteggiamento e la ‘filosofia’ di ciascun membro e del gruppo nel suo insieme, che porta a specifici comportamenti; siccome il valore “famiglia” in sé non garantisce alcun allineamento, occorre dichiarare quali sono i valori che la Persona porta nel sistema e condividere una linea comune che rispetti il punto di vista dei componenti il gruppo. Vanno specificati e condivisi i significati che ciascuno attribuisce ai suoi valori e infine i comportamenti attesi in coerenza con le ‘promesse’ di ciascuno. Una persona o un ente ‘di qualità’ mantiene nei fatti le promesse scritte o dette a parole. A questo punto, ogni componente remerà nella stessa direzione e diminuiranno sensibilmente incomprensioni ed equivoci; migliorerà altresì la comunicazione intra e inter personale. Altri valori “contenitore” sono ad esempio la “Professionalità” (ogni organizzazione, oltre al saper fare un lavoro, chiede di rispettare certi valori) e l’Imprenditorialità (come si conduce la propria impresa). I valori ‘veicolanti’ sono invece strumenti per realizzare ciò che i veri valori richiedono (un esempio tipico di valore veicolante è il denaro). Dai valori fondanti nascono gli obiettivi che motivano ad agire a raggiungere il successo. Appare paradossale come certi uomini non si rendano conto che il loro ‘stile di vita’ poggia proprio sulle forme di pensiero imperanti, sul sapere appreso e diffuso, sugli schemi di ragionamento e di abitudine comuni. Ogni scelta, a livello personale, famigliare e politico deriva dall’impostazione filosofica di fondo, più o meno presente alla coscienza di individui e gruppi. Questa filosofia, che diventa motore di azioni e reazioni, si basa sui valori, le credenze e le convinzioni riguardo ciò che davvero è importante per il sistema. Prima di agire or dunque, sarebbe opportuno conoscere a monte la piattaforma di riferimento… Gli scopi principali di un ente, così come quelli di un individuo, devono contenere chiari valori legati ad un profondo sentire: lo scopo principale di un sistema, la cosiddetta Missione, è il contributo originale che si vuol offrire al mondo, il modo in cui s’intende raggiungere la Visione, ossia la sfida da vincere per una trasformazione futura congruente alla Missione e al proprio Essere. Nel rapporto interno tra Valori e percezione dei comportamenti sta la causa delle emozioni. Conoscere se stessi significa scoprire le proprie vocazioni e inclinazioni, un modo d’essere naturalmente originale, ma anche essere coscienti delle dinamiche che caratterizzano i processi mentali: gli stati d’animo e le emozioni sono risultati di strategie di pensiero, riflessi sul corpo di attività psichiche, manifestazioni materiali di una forma pensiero spesso agente a livello inconscio. I valori conducono i nostri giudizi sulla realtà: più in alto sta un valore nella mia piramide etica, più forte sarà l’intensità emozionale collegata (nel bene e nel male). Onde evitare inutili sofferenze, è opportuno riconoscere in tempo questi processi, dare un nome agli stessi e ritornare al focus sul respiro e sulla verità dell’emozione, che rappresenta sempre un segnale d’azione: c’è qualcosa da fare, da cambiare, un errore di valutazione cui rimediare… Il benessere supremo si ottiene con un approccio Zen all’esistenza, con la piena consapevolezza che, vivendo completamente nel momento presente, si scioglie ogni legame al tempo passato e futuro, si comprende che la sofferenza è indotta dall’attività mentale e che si può vivere in modo sciolto e naturale nella spontaneità dell’attimo. L’analisi del sé e della propria mente lascia il campo alla Sintesi dell’Essere, alla Presenza nel Qui e Ora, nell’unico momento che può davvero chiamarsi VITA. Riferimenti bibliografici “Saper essere. La competenza umana fondamentale”, R.Maggiore, Chiado, Roma 2017 “Pillole di pace interiore”, Ren Zen, Armando Curcio, Roma 2017 “Vivendo Zen”, Ren Zen, Armando Curcio, Roma 2017 “Il piccolo libro del maestro”, Armando Curcio, Roma 2018 Sito ufficiale www.renzen.it
Audio: 
Download: Audio icon A0211009.mp3

Il Canto del Sole - Valter Casagrande

IL CULTO DEL SOLE E GLI ALBORI DELLE ILLUSIONI -  IL CANTO DEL SOLE

Il tuo sguardo, il tuo luminoso sorriso, il tuo caldo abbraccio, aprono tutte le porte alla vita, rischiarano gli orizzonti più cupi ridando colore alle assenze e voce alle essenze. Tu che osservi dall'alto il tuo frutto rimani con noi sena dubbi, senza una pausa voluta o un'esitazione impensata e tutto sarà, come sempre, soltanto certezza

Dall’alba della storia l’umanità ha fondato, sul potere creativo del sole, le sue culture, le sue credenze e le sue espressioni artistiche, dall’architettura alla letteratura, dalla filosofia alla religione, allo sport, al folklore, alla danza e alla musica. Variamente denominato, il sole era visto dalle culture antiche come il cuore di tutti i fenomeni, il simbolo della Verità, l’occhio della giustizia e dell’eguaglianza, la fonte della saggezza e della compassione, il guaritore delle malattie fisiche e spirituali e, soprattutto, la sorgente prima della vita, della fecondità, della crescita e dell’abbondanza. I nostri antenati associarono istintivamente il sole alla natura, invocandolo nelle feste agricole e nei riti della fertilità, mentre i grandi re e i conquistatori si identificarono con l’astro del giorno per assicurarsi la lealtà dei sudditi. La cultura del sole è dunque da sempre profondamente radicata nella vita di tutti i giorni. A partire dal 10.000 a.c. la storia è piena di graffiti o scritture che rappresentano il rispetto e l’adorazione verso il Sole. Per gli antichi il Sole doveva sembrare la prova tangibile dell'esistenza di una divinità, anzi il Sole doveva sembrare una divinità stessa, posta in lontananza, che guardava gli uomini dall'alto, non poteva essere guardato direttamente ed era visibilmente qualcosa di superiore e potente. Ogni giorno il Sole sorge, porta luce e calore salvando l’uomo dal freddo, dall’oscurità e dai predatori notturni nel buio della notte, regalando cioè la vita. Tutto questo per millenni ha reso il Sole l’oggetto più adorato di tutti i tempi. Nasce l'eliolatria..

GLI DEI DEL SOLE: UNA STORIA COMUNE

Horus è il Dio Sole dell’Egitto, risalente all’anno 3000 avanti Cristo. È la divinità del sole antropomorfa più importante, e la sua vita è una serie di mitologie allegoriche del movimento del Sole nel cielo. Horus è nato il 25 dicembre dalla vergine Isis-Meri, la sua nascita è stata accompagnata da una stella dell’est che i re seguirono per trovare il neonato salvatore e portagli dei doni. All'età di 12 anni era un prodigo insegnante adolescente, all’età di trenta anni egli fu battezzato da Anup e da quel momento iniziò il suo ministero. Horus aveva 12 discepoli che viaggiavano con lui mentre compiva miracoli come la guarigione dei malati e il camminare sulle acque. Ad Horus venivano attribuiti nomi simbolici come "La verità", "La luce", "Il figlio eletto di Dio", "Il buon pastore", "L'Agnello di Dio" e molti altri. Dopo essere stato tradito da Typhon, Horus venne crocifisso, sepolto per tre giorni, dopodiché è risorto. Questa stessa struttura mitologica è stata ripresa da molte altre divinità successive. Mitra della Persia, 1400 a.c., è nato da una Vergine il 25 dicembre in una grotta, veniva chiamato "Il Salvatore", "Il Redentore", "Il Messia", "la via e la verità", ed il altri modi. Egli aveva 12 discepoli e compiva miracoli, la sua religione comprendeva il rito dell'Eucarestia, della benedizione e del battesimo. Dopo la sua morte venne sepolto per 3 giorni dopodiché è risorto. Il giorno sacro per il culto di Mitra era la domenica detto anche "Giorno del Signore", e la sua resurrezione veniva celebrata ogni anno nel giorno di Pasqua. Krishna dell'India, 1200 a.c., è nato da una vergine il 25 dicembre in una grotta con una stella dell’est che segnalava il suo arrivo, alla sua nascita ha ricevuto la visita di tre uomini saggi che gli hanno portato in dono delle spezie, è sopravvissuto ad un infanticidio da parte di un re, ha compiuto miracoli con i suoi discepoli e si è anche trasfigurato, fu crocifisso (alla sua morte il Sole si oscurò) e poi è risorto dopo tre giorni. Krishna ritornerà sulla terra per giudicare i morti. Attis della Frigia, 200 a.c., è nato da una vergine il 25 Dicembre, veniva chiamato "La Verità", "La Luce" ed in molti altri modi, fu crocifisso, sepolto e poi risorto dopo tre giorni. Per farla breve, ci sono dozzine di dei nati il 25 dicembre, per lo più da una vergine, che hanno effettuato miracoli, sono morti su croci/alberi/oggetti fatti di legno, poi sono risorti, e presentano tra loro delle somiglianze impressionanti. La domanda sorge spontanea: perché queste caratteristiche?

LE CARATTERISTICHE COMUNI DELLE DIVINITÀ DEL SOLE C’è un fenomeno molto interessante che si verifica nei giorni tra il solstizio d’inverno e il 25 dicembre: dal solstizio d’estate (Giugno) al solstizio d’inverno (21 dicembre) i giorni diventano sempre più corti e freddi e, dalla prospettiva del nostro emisfero, ovvero quello nord, il Sole appare muoversi verso sud e diventare più piccolo e debole, e quindi il Sole sembra quasi "morire". Il 22 dicembre la “morte” del Sole si realizza completamente quando cioè raggiunge il punto più basso nel cielo. La cosa particolare è questa: dal punto di vista visivo, il Sole smette di muoversi verso sud per 3 giorni. Durante questo periodo, il Sole rimane in prossimità della Croce del Sud (la costellazione di Crux), e dopo questo periodo di tre giorni, il Sole ricomincia a muoversi questa volta verso nord facendo presagire giorni più lunghi, più calore e primavera. Il Sole è, quindi, morto sulla croce. Muore per 3 giorni per poi risorgere e nascere di nuovo: da qui l'idea che è comune a tante divinità del Sole come Gesù. I popoli antichi vivevano con grande paura questo periodo e spesso trascorrevano questi tre giorni accendendo falò come per aiutare il sole a riprendere il suo cammino, a rinascere proprio come un sole " invincibile", come il "sol invictus". Il 25 Dicembre era quindi considerato " Il natale del sole

Sol invictus

Arriva il giorno più breve, più cupo, più buio e la notte non lascia speranze di un’evoluzione, di un ciclo vitale che torni a rianimare immagini spente e sbiadite. Il gelo dell’abbandono prevale su tutto, sul poco che resta ancora visibile ad occhi cerchiati di ghiaccio, alle pupille che strette scrutano il buio in una ricerca convulsa, strozzata nel fiato. Ti cercano, sole invincibile, e spiano ogni tuo movimento, ogni avanzata che riconquisti gli spazi perduti e restituisca il motivo di credere, ancora una volta, alla vita. E allora arriva la festa, antica come la terra calpestata dai padri, pagana come la linfa che sgorga dalle radici più lunghe, liberatoria come l’acqua di un fiume gelato che torna a scorrere verso le verdi vallate.

I PLAGI NELLE STORIE DELLE RELIGIONI

Tra le tantissime divinità che possiamo considerare come derivazioni dirette dell'elioiatria, ne esaminiamo due che sono quelle a noi più vicine perchè antecedenti e direttamente legate alla religione giudaico-cristiana. HORUS Il" personaggio" di Gesù, così come ci viene raccontato, è un ibrido letterario-astrologico, e più esplicitamente un plagio della figura del Dio Sole egiziano Horus. Dai geroglifici dei tempi egizi si vedono le immagini dell'Annunciazione, dell'Immacolata Concezione, della nascita e dell'adorazione di Horus Le correlazioni sono eclatanti: - Horus era nato dalla vergine Isis-Meri il 25 Dicembre in una grotta/mangiatoia con la sua nascita annunciata da una stella all’Est e con la presenza di tre saggi; Gesù era nato dalla vergine Maria il 25 Dicembre in una grotta/mangiatoia con la sua nascita annunciata da una stella all’Est e con la presenza di tre saggi. - Horus era la luce del mondo; Gesù era la luce del mondo. - Horus ha detto di essere la verità e la vita; Gesù ha detto di essere il cammino, la verità e la vita. - Horus era il buon pastore, l'Agnello di Dio, il figlio dell'uomo, il redentore; Gesù era il buon pastore, l'Agnello di Dio, il figlio dell'uomo, il redentore. - Horus era “il Pescatore” ed era associato col Pesce (“Ichthys”), l’Agnello ed il Leone; Gesù era “il Pescatore” ed era associato col Pesce, l’Agnello ed il Leone. - Horus era considerato il Salvatore dell'umanità, il dio-uomo, l'unto; Gesù era considerato il Salvatore dell'umanità, il dio-uomo, l'unto. - Horus è nato a Annu, il "posto del pane"; Gesu è nato a Bethleem, la "casa del pane". - Horus è identificato da una croce; Gesù è identificato da una croce. - Horus era figlio di una vergine, chiamata Isis o Mari, raffigurata spesso che porta in braccio Horus bambino; Gesù era il figlio di una vergine, chiamata Maria, raffigurata spesso che porta in braccio Gesù bambino. - Horus aveva un padre putativo chiamato Sab (Joseph), cioè Giuseppe; Gesù aveva un padre putativo chiamato Giuseppe. - Horus ebbe la sua nascita annunciata dagli angeli ai pastori; Gesù ebbe la sua nascita annunciata dagli angeli ai pastori. - Horus durante l'infanzia rischiò di morire perché Herut tentò di farlo uccidere, ma si salvò grazie all'avvertimento di Dio ai suoi genitori; Gesù durante l'infanzia rischiò di morire perché Erode tentò di farlo uccidere , ma si salvò grazie all'avvertimento di Dio ai suoi genitori. - Horus era il bambino che insegnava nel tempio; Gesù era il bambino che insegnava nel tempio. - Horus fece il rituale di passaggio all'età adulta a 12 anni; Gesù fece il rituale di passaggio all'età adulta a 12 anni. - Horus non lascia alcuna traccia scritta della sua vita tra i 12 ed i 30 anni; Gesù non lascia alcuna traccia scritta della sua vita tra i 12 ed i 30 anni. - Horus fu battezzato a 30 anni nel fiume Giordano da "Anup il Battista", che poi fu decapitato; Gesù fu battezzato a 30 anni nel fiume Giordano da "Giovanni il Battista", che poi fu decapitato. - Horus aveva 12 discepoli; Gesù aveva 12 discepoli. - Horus era la stella del mattino; Gesù era la stella del mattino. - Horus era il Krst; Gesù era il Cristo. - Horus fu tentato da Set sulla montagna; Gesù fu tentato da Satana sulla montagna. - Horus fece miracoli e guarigioni, esorcizzava i demoni e resuscitò El-Azarus dai morti; Gesù fece miracoli e guarigioni, esorcizzava i demoni e resuscitò Lazzaro dai morti. - Horus camminava sulle acque; Gesù camminava sulle acque. - Horus fu trasfigurato sul Monte; Gesù fu trasfigurato sul Monte. - Horus fu crocefisso tra due ladroni; Gesù fu crocefisso tra due ladroni. - Horus resuscitò dopo tre giorni e la resurrezione fu annunciata da donne; Gesù resuscitò dopo tre giorni e la resurrezione fu annunciata da donne. MITRA Mitra, il dio della Luce celeste, è una personificazione del Sole. Il suo culto, originario della Persia e dell'India, nel III secolo a.C. era già diffuso in Egitto. Quasi contemporaneamente al Cristianesimo, penetrò poi nell'Impero Romano, facendo numerosi proseliti con grande rapidità. Il punto di irraggiamento della religione di Mitra fu la Cilicia, patria di Paolo, dov'era penetrata quasi cent'anni prima di lui. Gli studiosi hanno accertato tutta una serie di corrispondenze fra la sua predicazione e i culti mitraici. Mitra discese dal cielo e si racconta che alla sua nascita fu adorato dai pastori, che gli recarono in dono le primizie dei greggi e dei frutti della terra. In seguito ascese in cielo, venne posto sul trono accanto al dio del Sole, cioè, divenne partecipe della sua onnipotenza, e infine fu parte di una Trinità. Si credeva, inoltre, che un giorno sarebbe tornato a resuscitare e a giudicare i morti. Più in dettaglio, Mitra e' stato partorito da una vergine il 25 Dicembre, fu considerato un grande predicatore itinerante ed un maestro, aveva 12 compagni o discepoli, ha fatto dei miracoli, è stato sepolto in una tomba, dopo tre giorni è risorto e l'evento della sua resurrezione veniva celebrato ogni anno. Mitra era chiamato il pastore di dio, la sua figura fu assimilata a quella del leone e dell'agnello, egli fu considerato come la via, la verità e la luce, il redentore, il salvatore, il messia. Mitra era il demiurgo fra cielo e terra, fra dio e l'umanità: era l'Uomo-dio, il Redentore del mondo e il Salvatore. Il giorno consacrato al dio del Sole era la Domenica, celebrato in modo particolare nel culto di Mitra come primo giorno della settimana, e in seguito definito «il giorno del Signore» dai cristiani, per i quali in origine tutti i giorni della settimana erano egualmente dedicati al Signore (la Domenica fu introdotta da Costantino con una legge del 321). Il giorno della nascita di Mitra, il giorno di nascita del Sole, era il 25 dicembre. La religione di Mitra era seguita da una comunità suddivisa in modo strettamente gerarchico, le cui propaggini si estendevano a tutto l'Impero Romano. Il capo si chiamava Padre dei padri, come il Sommo Sacerdote del culto di Attis . I Sacerdoti portavano spesso il titolo di «Padri» e i fedeli si chiamavano «Fratelli». La stessa struttura organizzativa del Vaticano e' costruita similmente a quella del papato di Mitra. La gerarchia cristiana e' del tutto identica a quella (ben più antica) della precedente versione mitraica. Il culto mitraico conosceva sette sacramenti. Il culto di Mitra possedeva un Battesimo, una Cresima e una Comunione consistente in pane e acqua o in un miscuglio d'acqua e di vino, celebrata, in memoria dell'ultima cena del Maestro coi suoi discepoli; le ostie erano poi contrassegnate da una croce. Tutti gli elementi del rituale cattolico, dall'ostia all'acqua santa, dall'altare alla liturgia sono presi direttamente dalle antiche religioni misteriche pagane, come quella di Mitra. Ai Sacerdoti spettava soprattutto la dispensazione dei Sacramenti e la celebrazione del servizio divino: la messa veniva celebrata quotidianamente, ma la più importante era quella domenicale: l'officiante pronunciava le sacre formule sul pane e sul vino, nei momenti particolarmente solenni si faceva squillare una campanella e in generale risuonavano lunghi canti accompagnati dalla musica. I seguaci di Mitra si richiamavano a una Rivelazione, ponevano un diluvio all'inizio della storia e un giudizio universale alla fine; non solo credevano nell'immortalità dell'anima, ma anche nella resurrezione della carne. Le istanze morali del culto di Mitra, il «Dio Giusto» e il «Dio Santo», non avevano nulla da invidiare a quelle dei cristiani: come i cristiani dovevano imitare il modello del loro padre celeste, allo stesso modo il fedele del vero, giusto e santo Mitra era tenuto a condurre una vita attivamente governata dalla morale. La sua religione, definita da precisi «comandamenti», perseguiva un rigoroso ideale di purezza; la castità e la temperanza erano annoverate fra le virtù più alte, e anche l'ascesi vi svolgeva un ruolo non secondario. Fra il III e il IV secolo la religione mitraica godette del medesimo prestigio del Cristianesimo: allora per numero di adepti e per influenza sembrò sul punto di superare il Cristianesimo, cui fu particolarmente sgradito. Come tutti gli altri culti, anche il Mitraicismo dovette poi soccombere al divieto degli imperatori cattolici: istigati dalla Chiesa, ancora nel IV secolo i suoi fedeli vennero perseguitati dai cristiani, i suoi templi saccheggiati, i suoi sacerdoti assassinati e sepolti nei sacrari rasi al suolo. A parere di molti studiosi la distruzione di questa religione ebbe successo proprio perché i cristiani innalzavano le proprie Chiese sulle rovine degli antichi luoghi di culto; infatti, secondo un'antica credenza, in questo modo la divinità precedente era per così dire resa impotente o addirittura annichilita.

LA VERA STORIA DI GESÙ

Ecco un riassunto delle ricerche storiche dettagliate fatte sulla vera storia di Gesù. Poiché il regno di Davide risultò di breve durata, Dio ne promise un altro imperituro per la cui conquista avrebbe designato un Messia o Cristo (unto dal Signore ) scelto tra i discendenti dello stesso Davide. Una parte degli ebrei, stanchi di aspettare il Messia promesso, decisero che questi fosse già comparso fra di loro. Siamo nel periodo delle Guerre Giudaiche quando il Messia era individuato tra i capi rivoluzionari che combattevano Roma. I suoi seguaci erano gli Esseni dei rotoli rinvenuti recentemente (1947) nelle grotte di Qumran ( mar morto). Questi praticavano il battesimo (Giovanni Battista), la comunione dei beni e vivevano secondo riti monastici sotto la guida dei Nazir o Nazirei (o Nazareni ). Fortemente contrastati dagli occupanti Romani, affrontavano con gioia il patibolo nella certezza di acquisire, come ricompensa dopo la morte, una vita eterna di beatitudine. Sono gli stessi martiri che la Chiesa, cancellando ogni riferimento al loro movimento rivoluzionario e comportamento protocristiano proprio degli Esseni, fece passare come martiri cristiani. Il movimento che portò alla nascita del Cristianesimo ebbe inizio verosimilmente alla fine delle guerre giudaiche con la distruzione di Gerusalemme (70 d.c.) in conseguenza della perdita di fiducia nel metodo rivoluzionario. Prevalse infatti fra gli Esseni la corrente religiosa gnostica che credeva in un Messia essenzialmente spirituale con apparenza umana disceso dal cielo non più come guerriero davidico, ma come Salvatore degli oppressi. Ben presto però la maggior parte degli Esseni, superando le dispute teologiche delle correnti gnostiche, decisero di dargli un corpo incarnato allo stesso modo delle divinità solari delle religioni misteriche e, come già queste (Horus, Mitra, Krishna,..) e allo stesso modo, lo fecero nascere da vergine alla stessa data del 25 dicembre (quando il sole riprende la sua corsa nello zodiaco dopo tre giorni di immobilità apparente seguiti al solstizio), morire in croce, risuscitare da morte nel periodo delle feste pasquali (rinascita primaverile della natura) e salire al cielo il terzo giorno per risiedere alla destra del Dio padre, ecc..ecc. La struttura organizzativa e i rituali, dall'ostia all'acqua santa, della nuova religione che andava diffondendosi verso Roma tra i pagani, restarono, con qualche adattamento, quelli del culto di Mitra che rappresentava all'epoca la religione maggiormente diffusa nella capitale e in tutto l'impero e, come già questa, ebbe i suoi vescovi o papi con in testa la "mitra" o "mitria". Il resto della storia è quello della costruzione dei falsi operata dai "Padri della Chiesa" per nascondere l'origine rivoluzionaria del Cristianesimo e farlo apparire come religione rivelata. CONCLUSIONI: LE ORIGINI DELLE ILLUSIONI L'origine delle religioni è dunque riconducibile all'Eliolatria, cioè l'adorazione del Sole, cui gran parte delle più importanti di esse, cristianesimo compreso, si rifanno in modo evidente. Ma tutto questo riguarda certamente solo la storia delle religioni e non i messaggi che le varie religioni trasmettono che sono il frutto dei tanti fattori storici, culturali e di sviluppo e sono soprattutto molto diversi tra loro. Perchè è certamente unica la storia dell'uomo, la storia dei suoi percorsi e delle sue scoperte, in un tragitto che coinvolge le domande fondamentali che lo accompagnano dall'inizio della ragione, delle capacità comprensive, delle motivazioni dell'essere. E, soprattutto quella ineluttabiltà che, per quanto possa essere accettata, non sarà mai superata. .. ...La morte, la fine di tutto, la temporaneità della vita sono concetti ai quali vanno trovate della risposte, delle soluzioni, delle immagini che ne consentano l'accettazione. Nasce l'illusione....

ILLUSIONE

Illusione, ubriachi la mente di chi coltiva speranze senza ritorno. Affondi amare radici nei cuori più semplici e superficiali. Bruci i sogni in apparenza più belli, ma labili e fuori dagli equilibri vitali.

Dal momento che la morte è inevitabile, qualsiasi tentativo di ignorare o evitare questo fondamentale aspetto connaturato alla vita ci condanna a una visione superficiale dell’esistenza stessa. Una chiara e corretta consapevolezza della natura della morte può farci vivere invece senza paura, con forza, chiarezza di propositi, e gioia. L’universo è un’entità vivente infinita, nella quale si ripetono incessantemente i cicli di vita e morte individuali. Noi stessi sperimentiamo questi cicli ogni giorno: dei circa 60 trilioni di cellule che compongono il nostro corpo, milioni ne muoiono e altrettanti si rinnovano attraverso il processo metabolico. La morte quindi è un aspetto necessario del processo vitale: rende possibile il rinnovamento e una nuova crescita. Dopo la morte, le nostre vite ritornano al vasto oceano della vita, proprio come una singola onda si alza e si abbassa nella vastità del mare. Attraverso la morte, gli elementi fisici del nostro corpo, così come la forza vitale fondamentale che sostiene l’esistenza individuale, ritornano e sono “rigenerati” nell’universo. Idealmente, la morte può essere intesa come un periodo di riposo o un sonno ristoratore che segue gli sforzi e le lotte di tutta la vita. Sicuramente, comunque, la morte è una trasformazione..la trasformazione in qualcosa che noi possiamo solo immaginare, sognare e, forse, rappresentare dandogli tutta la bellezza possibile con la forza del nostro desiderio.....della nostra illusione. Per concludere, e per un'analisi più vicina alle mie convinzioni più radicate, la morte è un opposto che, in una visione dialettica, costituisce elemento indispensabile di un unicum. Il giorno e la notte, il bene e il male, il rumore ed il silenzio, il tutto e il nulla sono aspetti inscindibili della stessa unità che possono esistere solo nella loro coesistenza o, meglio, nella loro alternanza. Se inequivocabilmente la morte esiste perchè esiste la vita è quindi altrettanto vero che la vita esiste perchè esiste... la morte.

Audio: 

L'officina insonne della parola

Giovedì 14 giugno ore 18,00 - via Tadino, 20 Milano - Happy Hour & Reading - L'OFFICINA INSONNE DELLA PAROLA - evento di Gianfranco Depalos e l'associazione "I pentagrammatici-onlus" Sesto San Giovanni . Poesie di Thomas Eliot, Dylan Thomas, Jaques Prevert, Attilio Bertolucci, Roberto Sanesi. Letture Virginia Bonaretti, Fabrizio Bregoli, Maddalena Capalbi, Gabriella Colletti, Gianfranco Depalos, Annita Di Mineo, Lidia Sella.

La Poesia eterna espressione dei sentimenti - Relatrice Mirella Tribioli - Letture Maria Luisa Botteri .

Non tutti sanno che il primo giorno di primavera, il 21 Marzo, è la giornata mondiale della poesia istituita dall’UNESCO nel 1991, avendo riconosciuta a questa espressione tra le più belle e di antica memoria, la capacità da sempre, soprattutto di “dialogo”, nel suo essere “universale”; oggi ancor più “interculturale”, ponte tra persone diverse che unisce al di là delle lingue, dei costumi e delle culture; nel suo senso di bellezza che la rende “globale”. Prepotente mi viene in mente quell’Umberto Poli che, abbandonato dal padre prima della nascita, mutò il suo cognome in Saba, che in ebraico vuol dire -pane-, proprio in onore dell’amata madre ebrea che tanta dedizione gli aveva mostrato nel tempo. Perché mi viene in mente? Proprio per la sua poetica di “dialogo”, rivendicata da “poeta più chiaro del mondo” come amava dire di se stesso, estraneo come era agli sperimentalismi di tanti poeti del ‘900: crepuscolari, futuristi, ermetici dai monologhi oscuri. Nella sua ricerca di essere “discorsivo e semplice” rende la poesia rifugio e conforto per l’uomo addolorato, agevolando, appunto, “il dialogo” con questi, la comunicazione e l’amicizia, forte del suo messaggio di pace. Ecco, nell’individuare i vari poeti del tempo nei loro testamenti letterari frutto dell’espressione dei loro sentimenti, si colgono le tante risposte dai vari significati, che scaturiscono dalla loro sensibilità di scrittura, dalle loro domande riguardo la vita nella sua condizione di felicità, gioia, caducità, dolore e affanno, e dall’interrogazione, nel contempo, riguardo cosa sia la poesia stessa, che appunto Saba traduce in quelle “trite parole” della quotidianità. Tanti, dunque, sono i poeti che si sono chiesti in che cosa consista il loro ruolo, intimiditi dal fatto che la poesia, le lettere “non dant panem” e cosa sia per loro la poesia stessa (si ricordano ad es. Verlaine, Dickinson, Ungaretti, Montale, Quasimodo, Neruda ecc.) e tantissime sono state le risposte tentate. Alcune ci fanno sentire liberi, altre ci fanno sentire in gabbia e seppur difficili ci affascinano perché stimolanti, nel rimanere consapevoli, come dice Alda Merini, che i poeti con la loro poesia, “Nel loro silenzio fanno ben più rumore di una dorata cupola di stelle”. Allora cos’è la poesia? Per quanto detto, possiamo dire che nessuno è mai riuscito a dare una risposta soddisfacente, risultando essa del tutto emblematica. Per conto mio, nel lasciare da parte qualsiasi definizione che potrebbe essere riduttiva, mi piace far riferimento a tre autori di generazione diversa, tramite i quali si possono ricavare tre caratteristiche importanti della poesia stessa, che si possono sintetizzare in felicità, sofferenza, finzione. Leopardi, scrittore dell’800, in un passo dello Zibaldone (30 N0vembre1828), suo diario intellettuale, commenta riguardo la poesia, è essa “…felicità da me provata nel tempo del comporre, il miglior tempo ch’io abbia passato in vita mia”. Per Leopardi, dunque, la poesia è piacere e felicità per chi scrive e per chi la fruisce. Per Ungaretti, circa un secolo dopo, nella lirica dell’Allegria: “Poesia” è, invece dolore. Il poeta si trova a gridare in rima la sua sofferenza nel non riuscire a tradurre in parola l’universo e i sentimenti dell’uomo. “Vivo di questa gioia malata di universo e soffro di non saperla accendere nelle mie parole”. Per il prolifico contemporaneo Cattafi la Poesia è come “una verità vestita di menzogna”, una finzione che trasmette la verità dell’uomo, una fantasia strettamente legata alla realtà, tramite la quale il poeta esprime i suoi sentimenti e quelli degli altri, come si evince dal testo “Geografo” “…Non ho altro da dirvi per mentirvi…ho parlato di me…spinto dalla bisogna ad una verità vestita di menzogna” E’ pensabile che come è nato l’uomo sia nata la poesia, congenita alla sua persona, al suo sentire, nel suo significato di “fare”, di operare su se stessi, nel disvelare le emozioni più recondite, rivelando l’essere nel suo rapporto con gli altri, proprio nel capire che non si è soli. Più disparati sono stati e sono gli argomenti della poesia, essendo appunto, come detto, l’espressione di noi stessi, la varietà che l’uomo prova e vuole trasmettere. Temi di sempre e comunque nuovi: quello della natura, dell’amore, civile-sociale, della guerra, della famiglia, della donna, della nostalgia, della memoria, del bene, del male ecc. La poesia, per essi, assurge ad una condizione etica e l’uomo non sarebbe quello che è, senza di essa. E’ in questa direzione, nel dover operare una scelta tra le tante e varie tematiche, che mi preme trattare per la mia sensibilità, particolarmente le poesie e gli autori che ricordano “ i tempi e i luoghi lontani”, perché più toccano il cuore nel portare con sé la nostalgia e la malinconia per il rammarico dei bei tempi andati, quali quelli della fanciullezza e giovinezza, nella forte volontà di riviverli ancora. La giovinezza, la felicità, sono il sogno legato a quel paesaggio familiare, tanto caro, per quei profumi, rumori, colori, che diventano aspettativa di forte speranza, nel voler smentire l’insicurezza di un futuro, che ahimè quasi sempre diventa amara realtà. La poesia de “i tempi e i luoghi lontani” sviluppata anche per problematiche storiche contestuali, ha visto una produzione molto ricca. A proposito, non possiamo trascurare di menzionare Dante che subì l’esilio. In quella che era la lotta tra le fazioni dei Guelfi Bianchi più moderati e Guelfi Neri più combattivi, che sostenevano il Papa e, i Ghibellini che invece tenevano per il primato politico dell’imperatore, lui che era Guelfo Bianco divenne inviso a Papa Bonifacio VIII e coperto di accuse infamanti di ruberia. Fu condannato a due anni di confino, anni che non lo videro rientrare più a Firenze. Quei Guelfi e Ghibellini di cui tanto parlerà nelle sue opere e particolarmente nel sesto canto delle tre cantiche (i cosiddetti canti politici), in quanto con le loro lotte avevano destabilizzato e martoriato l’amata Firenze e la cara Italia. La situazione degenerata e degenerante di queste due fazioni sarà raccontata nell’”Inferno” per bocca del “goloso” Ciacco. Nel “Purgatorio” nell’incontro con il poeta trovatore Sordello di Goito, che non risparmierà l’Italia e Firenze, tacciandole di barbarie e corruzione. Nel “Paradiso” da Giustiniano; sarà, infatti questi, con la sua forte invettiva, a sottolineare quelle lotte che tanto avevano compromesso “il grande disegno di unità e pace” per Firenze e l’Italia stessa, obiettivo agognato dalla teoria politica dantesca. Struggente è la disamina storica per la sua prediletta Italia, infatti la testimonia nelle sue bellezze di italica memoria, dandone i confini a Pola presso del Carnaro, come afferma nel sesto cerchio infernale dove soffrono gli eretici. Qui, il sommo poeta, con dotta poesia, per descrivere gli avelli della città di Dite, ricorre ad un doppio paragone geografico citando sia la necropoli di Arles, sia quella di Pola e per quest’ultima dichiara che si trova presso il Golfo del Carnaro che delimita l’Italia e ne bagna i confini: “Si com’a Pola presso del Carnaro/ ch’Italia chiude e i suoi termini bagna”. Importante è il tema politico perché sottende le tante altre tematiche che stanno a cuore al poeta, come la sua condizione di esule dall’ingiusto destino, che soffre i ricordi di amore e odio per la sua terra lontana. Questo periodo di allontanamento dal luogo natio fu molto patito, il non partecipare alla vita della sua amata terra gli diede molto dolore. Luoghi della città esaltati nelle sue varie opere, nei versi immortali, ricordano l’amore del poeta per la bella Firenze. Diversi sono i canti della Commedia che riportano il fermento nostalgico della città. Nel XV canto dell’Inferno si fa riferimento alla Chiesa di Santa Maria Maggiore, dove avvenne l’incontro ultra terreno tra Dante e il suo maestro Brunetto Latini, sotto una pioggia di fuoco. Nel canto XVI del Paradiso si menziona, con una coloritura di versi, l’eterno conflitto tra la famiglia dei Donati e quella dei Cerchi che, lasciate alla fantasia del lettore, sembrano volteggiare con i loro mantelli lungo il corso. Quel corso dove si ravvisa anche la casa dei Portinari dai quali nacque la bella amata “Tanto gentile e tanto onesta” Beatrice, sempre viva nel ricordo. Altro poeta che per motivi di vita è peregrino per la sua Toscana, è Giosuè Carducci. L’infanzia in Maremma lo segna. “ Traversando la Maremma Toscana”, un sonetto che appartiene alle -Rime nuove- , approfondisce le sue nostalgiche memorie autobiografiche. Nel vedere il paesaggio desolato della Maremma rivede i luoghi e rivive i tempi della sua fanciullezza, stabilendo un intimo colloquio con la natura, mentre il cuore gli balza in gola per la commozione, tra gioia per averla rivista e pianto per il rammarico del passato e per le vane illusioni della giovinezza. La Maremma descritta in tutta la sua bellezza di paesaggio ispira al poeta un senso di pace e di coraggio, di virile accettazione della vita. La tematica di questa poesia conclusiva di una affermazione fiera della realtà, fa evincere i nobili ideali morali e civili del poeta riconosciuto vate, con i suoi valori saldi ed elevati, ispirati al mondo classico ed espletati in opere quali l’ode “Miramar” e ne “Il comune rustico”. Miramar, dedicata alla drammatica morte di Massimiliano d’Austria, è il nome di un castello che sorge vicino Trieste, dal quale si respirano le gemme del Mar Adriatico e dell’Istria: Muggia, Pirano, Egida (Capodistria), Parenzo, Salvore, i morti veneti, e le vecchie fate istriane. Anche “Il comune rustico”, poesia di ispirazione epico-storica, vede nella prima parte uno struggente saluto ad un paesaggio alpino della Carnia in provincia di Udine, dove il poeta ha trascorso un soggiorno di villeggiatura, in una delicata descrizione di natura assai bella e suggestiva. E’ proprio questa rappresentazione a sollecitare la fantasia del poeta a rievocare i ricordi del passato: la vita vigorosa dei luoghi della Carnia nell’età comunale, la vita democratica di un comune rustico di libera associazione di pastori e montanari, ai quali il console assegna la cura dei prati e dei boschi mentre ai giovani la difesa della comunità contro i popoli stranieri, gli Unni e gli incipienti Slavi invasori, tra il timore delle famiglie che piangono i loro figli votati alla guerra. Intrigante in questa poesia è il messaggio ponderato riguardo la coscienza di difesa del popolo del Medioevo contro il nemico e quello dell’universalismo politico dell’Impero Romano. Chi più dolente, nella sua poesia riguardo “I tempi e i luoghi lontani”, se non Foscolo? ( Niccolò) Ugo nacque a Zante, l’antica Zacinto nel greco mar, ma di dominio veneto dal 1484, tanto da essere, per questo, cittadino veneziano di natio veneziana, isola dove visse la prima infanzia in condizioni modeste. A Zacinto dedicò uno dei suoi sonetti più belli, nel quale in maniera affranta, esprime tutta l’amara malinconia per il luogo natio, dove non crede più di tornare. Il pensiero della bellezza di una natura incontaminata ed il mare cristallino gli insorge prepotente insieme ai versi di Omero che la canta in uno spettacolo di verde, di fronde e nubi. Quell’Omero, suo modello di classicità, che ha narrato i perigli di Ulisse nel ritornare ad Itaca e baciarla, mentre lui contrito, è consapevole di aver perduto definitivamente il contatto con la sua terra, che “non avrà altro che il canto” del figlio, ormai lontano per sempre, lontano fisicamente ma non con il ricordo, per il pensiero che gli faceva costantemente accarezzare i giorni dell’infanzia, la cara madre (Diamantina Spathis) e quella nutrice greca che come linfa vitale, lo aveva allattato al seno. Per quel nonno Priore e chirurgo dell’Ospitale militare di Spalato, per questo posto che verrà dato a suo padre medico, alla dipartita del nonno stesso, per un sostegno economico, vista la precaria situazione di famiglia, eccolo arrivare in Dalmazia dove ricevette nel seminario di Spalato una educazione classicistica, educazione che respirava anche per il suo vivere nel Palazzo di Diocleziano, immerso in una architettura classica, perché queste terre erano di cultura greca e latina prima e dopo italiana, legate a Venezia per 800 anni dal 1000 al 1797. Terre cedute con -Il trattato di Campoformio-, appunto, il 17 Ottobre del 1797 all’Austria, Il Trattato era la conclusione vittoriosa della Prima Campagna d’Italia di Bonaparte e segnava la fine della Repubblica di Venezia. Lo Stato Veneto venne ceduto insieme all’Istria (ora Slovenia e Croazia) e alla Dalmazia, fino alle Bocche di Cattaro (ora Croazia e Montenegro) all’arciducato d’Austria, che in cambio riconobbe la Repubblica Cisalpina napoleonica. Sarà, poi, anche il ricordo dei tre anni vissuti a Spalato fino alla prematura morte del padre, in quella formazione di una cultura della bellezza, a determinare il ricco sostrato alle tante belle poesie di Foscolo. Successivamente, nel suo peregrinare, si trasferì, insieme alla madre ed ai fratelli, a Venezia dove, perché democratico ed inviso al governo conservatore della Repubblica, si rifugiò sui Colli Euganei. Caduta la Repubblica, ritornò a Venezia, ma deluso appunto dal Trattato di Campoformido riparò a Milano. Il grande dolore sortito dalle terre cedute, è denunciato ne “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”, pubblicato nel 1798. Sebbene questo sia un romanzo epistolare, il primo della letteratura italiana, ispirato su un fatto reale, di influsso alfieriano e sul modello di un’opera di Goethe “I dolori del giovane Werther”, si può dire che esso assurge, particolarmente in alcuni passi, a vera poesia. E’ la storia, per molti versi autobiografica, del giovane Jacopo che deluso dal trattato si rifugia sui colli Euganei, quei Colli Euganei di natura incantevole altrettanto vissuti da Foscolo come già detto, dove il giovane si innamora di Teresa, già promessa sposa. Consapevole della impossibilità di vivere questo amore, vaga disperatamente per l’Italia, non confortato da nulla, né dalla bellezza della natura, né dalla saggezza del Parini, incontrato a Milano. Afflitto per il popolo italiano, ritorna sui Colli Euganei dove si uccide, suicidio dal sapore poetico, non sventurato, ma inteso come coraggio di libertà con il suo valore spirituale, come affermazione di quegli ideali senza i quali non c’è dignità. Le parole dell’opera sono la forte espressione dei sentimenti dai temi “romantici” del poeta, nella fusione, appunto, degli elementi autobiografici di natura sentimentale, di natura politica-ideologica , nell’ispirazione eroica, nell’impegno civile, che riflettono lo spirito tormentato del popolo. L’Italia è diventata protettorato francese ed un tema importante nel romanzo diventa quello della patria-nazione, nonché quello poetico dell’esilio. Non meno poetici sono gli assunti dai valori positivi delle illusioni, dell’amore difficile e sofferto e dell’amore che conforta; del contrasto tra la realtà dolorosa dell’uomo e la sua ansia di riscatto tramite anche la bellezza della donna, e del potere consolante della bellezza in genere; della natura rasserenatrice; dell’eroismo virtuoso romantico. Nel sostenere la mia tesi che lo Iacopo Ortis, sebbene romanzo, sia in vari momenti gloriosa poesia, voglio rifarmi particolarmente “all’incipit” dell’opera, che nel suo ritmo è un endecasillabo, sottolineandone, quindi, la fortissima poeticità proprio dal punto di vista ritmico. Poesia cesellata dai suoi termini forti, quali “patria” e “sacrificio”, quel sacrificio ineluttabile, inevitabile, inesorabile, contro cui non si può lottare proprio perché imposto da una fatale necessità. La tragicità degli eventi e il “tutto è perduto”, espressione di passione e tensione fortissima, sono descritti con una tale caratura poetica da creare una carica emotiva e pathos nel lettore. Quello stesso pathos, commozione profonda, che Foscolo aveva subito nel suo reiterato dramma dell’esilio dalle sue patrie: Zante, Spalato, Venezia, in una eroica sopportazione di sventura, come Ulisse, ma che per il nostro scrittore termina in una disperata, ineludibile, emblematica “illacrimata sepoltura”. D’Annunzio, poi, ben interpreta, con la sua poesia di intensa emozione, i tempi e i luoghi delle sue vicissitudini di vita e questo sempre a gran voce, nella sua immagine di vita eccezionale, prepotentemente all’insegna del clamore, come gli era pertinente e come richiesto dallo spirito del “superomismo” di moda letteraria, uno degli aspetti del Decadentismo a lui più congeniale. Decadentismo al quale era approdato dopo aver maturato tanta cultura, da Carducci a Dostoevskij e quest’ultimo in quella accezione di introspezione psicologica, che passava per l’esperienza del Naturalismo francese e Verismo italiano. Era il Decadentismo a ben rappresentarlo, per quella ricerca di miti umani, dettati da scrittori e pensatori da lui amati come Nietzsche, per i suoi intenti irredentistici, interventistici, appunto da superuomo. Tramite esso rinforzerà il suo ideale di Forza e di Bellezza, nel cantare la natura della sua terra natale e l’amor di Patria, il tutto calato in un sensualismo coinvolgente, che talvolta avvicina e talvolta allontana questo scrittore, nel tempo tanto discusso, e che tuttavia, pur nelle sue forme di espressione di pensiero talvolta discordanti, incuriosisce sempre. La visione “panica” che lo scrittore confronta con il suo stile rivestito di perfezione formale, rende la sua espressione artistica più intensa e stempera la virilità che gli è altrettanto propria e naturale. In questo concerto di sensualismo, naturalismo e di naturalismo sensuale, si raccorda il mito del Superuomo dannunziano di cui si farà interprete ed eroe nella difesa di quella “Vittoria mutilata”, espressione da egli stesso coniata alla fine della prima guerra mondiale, per indicare quella vittoria militare ottenuta in battaglia e vilipesa nelle trattative diplomatiche. La produzione letteraria di D’Annunzio è molto ricca e si può dire che sarà proprio questa guerra a segnare una divisione nei componimenti e nelle gesta di questo scrittore soldato, di questo poeta eroe. Del primo momento, fanno parte più, quelle opere dello scrittore-poeta come ad es. “Canto Novo”, “Le Laudi” ecc., al secondo momento appartengono, invece, gli scritti dello scrittore-soldato come “Notturno”, “La canzone del Quarnaro” ecc. Opere tutte che vivono, per lo più, la rappresentazione scenica della sua vita, come quando si fa volontario nel 1917 non risparmiandosi, come soldato, sulle montagne aride del Carso e, a seguire, come aviatore su Vienna, Pola, Cattaro o nell’impresa de “La beffa di Buccari” nel golfo del Carnaro. Imprese dalle quali torna sempre accolto come un valoroso, rinforzando il gusto per il gesto eccezionale. Il mito dell’eroe, del superuomo non è, però, una condizione nicciana-dannunziana. Visto che già nel seicento e poi con Goethe c’era stato l’anelito da parte delle persone di superare i propri limiti. L’accezione razzista-nazionalista, testimoniata dal nazismo, è però dell’età del poeta. Uomo d’azione, intrepido sostenitore dell’Istria, della Dalmazia e Fiume in Italia, perché terre di forti emozioni sempre nel suo cuore, è proprio con l’impresa di Fiume che renderà perenne nel tempo la sua immagine, perché Fiume è per D’Annunzio, come dice in una lettera a Don Rubino suo amico, “Causa Santa…la più pura e la più alta che sia nel mondo…merita…non soltanto la vita, che è lieve, ma ogni altro bene, Io non lascerò Fiume se non morto. Ma neppure morto; ché desidero riposare in vista del Quarnaro, all’ombra di quei lauri”. Quei lauri dal sapore di pittura di cui tante volte aveva condiviso la frescura, il verde e la bellezza riflessa nelle acque adriatiche. Del resto, sollecitando i marinai d’Italia in Fiume italiana per quell’Adriatico italiano, con un fare estetico-politico, con tutto il suo entusiasmo si era trovato più volte a caldeggiare quell’Adriatico smeraldo e trasparente a lui tanto caro poiché “…è sempre stato per noi un mare di vita perché ci appariva come una forma della nostra passione e come una forma della nostra speranza. Era nostro perché non avevamo mai cessato di volerlo nostro…” E’ un amplesso sensualistico panico di superomismo quello del poeta nei confronti di Fiume e della Dalmazia, che i trattati della prima guerra mondiale non avevano riconosciuti e assegnati all’Italia. Tanto sangue sparso non era riuscito a riscattare l’italianità di un popolo che era si era sentito italiano da sempre. Nel sottolineare il senso di bellezza e di estetismo di D’Annunzio , non si può non menzionare l’”Alcyone”, il poema dell’estate, capolavoro del poeta, una raccolta di liriche che si inserisce nella più ampia antologia delle “Laudi”. Qui l’autore abbandona i toni eroici e civili per parlare di una vacanza estiva in Versilia, in comunione con la natura, in una dimensione arcana e profonda della realtà. Avvincente è il tema delle liriche della metamorfosi dalla dimensione umana a quella naturale, della trasfigurazione dell’umano nel respiro panico della natura e viceversa, nella sua musica sinuosa e ineffabile. Coinvolgente è infatti la musicalità dei versi, per il valore musicale della parola nel suo effetto fonosimbolico e per la forma metrica nuova. Particolarmente bella tra queste poesie “La pioggia nel pineto”, espressione di musica anche nel suo ritmo di pioggia e sogno del vagare senza meta del poeta e della donna amata Ermione. Intrigante è, il nome e la figura della donna Ermione, a cui il poeta si rivolge nell’ultimo verso di ogni strofa, emblematica della dolce favola dell’amore. E’ nel leggere questi versi tra immaginifico e realtà che mi viene in mente di quale potere sia capace la poesia per il lettore… La poesia, infatti, coinvolge i più, non lascia indifferenti nell’ascoltare quei suoni che anticipano i significati, quelle parole che hanno un sapore, creando maieuticamente altre parole nella nostra testa, facendo nascere un’altra poesia, la nostra, facendoci proprie le parole che spesso mancano, in una metamorfosi esistenziale. Il fil rouge tra gli autori trattati finora, è sicuramente “l’espressione dei sentimenti di nostalgia per i tempi e luoghi passati”, per lo sradicamento desolato dai luoghi cari di origine e in questo accostamento non posso trascurare Antonio Seccareccia. Questi sia nella espressione di prosa poetica di lungo racconto come “Le isolane”, raccolta di quattro episodi che narrano la storia di donne incontrate nel periodo militare da volontario in Grecia, durante la seconda guerra mondiale; sia in quelle significative poesie delle varie raccolte come “Viaggio nel sud” e “La memoria ferita”, ne risulta raffinato scrittore. Riguardo “Le isolane”, ambientato in terra greca, mi viene da azzardare, impressionata dal discorso condotto finora rispetto i poeti presi in esame che si sono compiaciuti di fare anche una disamina politico-culturale sulle terre d’Istria e di Dalmazia, che si possa riconoscere, per molti aspetti, un collegamento subliminale tra l’Istria, la Dalmazia e la Grecia stessa, e soprattutto per quelli della vita contadina da una parte, per la presenza del mare dall’altra e per la terra pietrosa. L’Istria, la Dalmazia e la Grecia si assomigliano. Prose che nelle loro descrizioni di paesaggi e di tessuto umano, nel loro ritmo di poesia, portano la lezione del ricordo e del vivere, un vivere da Seccareccia restituito alla scrittura, quanto la scrittura al vivere stesso. Ricordi felici e talvolta dolorosi dello scrittore in quel vissuto precario, sentiti in maniera analoga dai poeti trattati e dai tanti usciti da altrettanti luoghi lontani di esilio. I personaggi de “Le isolane”, nella loro solitudine, mi danno un immediato accostamento tematico per i loro sentimenti ai poeti che hanno cantato le genti di Istria, Fiume e Dalmazia, nonché a queste stesse genti. La solitudine dei protagonisti è l’elemento caratterizzante de “Le isolane”, quella solitudine di Panaiulla della non speranza. Quella speranza che non c’è neanche per i cari Dante, Foscolo, Carducci, D’Annunzio per loro stessi fuorusciti o per gli esuli che raccontano, nel loro senso di smarrimento esistenziale o di speranza tenue da cui si sentono esclusi, ed il tutto in un contesto spazio temporale di una natura per lo più rasserenante, dai fulgidi colori di luce di cielo e di mare, lì Egeo qui Adriatico, del giorno a contrasto del buio della notte, in una metafora di chiarore ed oscurità della vita, in un senso di drammaticità e disorientamento, che non spersonalizza, però, i personaggi del romanzo, né i nostri poeti e le genti giuliano dalmate, da loro raccontate, in una scelta di dignità morale. Anche Seccareccia è l’esule che non vede ritorno all’amata terra di origine e questo raccontato nella corrispondenza con l’amata madre, fa evincere il dolore di entrambi legati dalla stessa lontananza e il suo sogno di ragazzo di ritrovarla al ritorno. Poesia di memoria per la madre e per quella terra agognata. Ritorno definitivo che non si compirà nella realtà, ma che in una nostalgia consolatoria, vedrà quel tempo circolare e non lineare, del nostos stesso, compiersi solo in versi. Il mito del ritorno è quanto accosta, in un tema assiomatico, questo poeta agli altri scrittori ed ai loro esuli. “La memoria ferita” è la riemersione del suo passato sofferto, popolato da sogni e spettri, incarnato dal nostro scrittore in maniera neorealista nel mondo contadino del suo sud, ma che tanto è pertinente al senso del passato di dolore di chi come lui si è sentito forzatamente estraniato dalla cara madre terra di origine, tra l’altro in un recupero di una parte di se stesso, solo apparente. L’anima di Seccareccia, nonostante gli affetti, esprime continuamente una sottile nostalgia per la perdita dell’amata casa, terra, cose, che da condizione della sua identità, diventa in maniera traslata identità dei tanti, come lui, che si ritrovano in una poesia tanto evocativa, nobile e bella per i suoi significati profondi. Nel concludere per il significato di poesia e poetica come scelta di esperienze letterarie ed estetiche precedenti, ci piace aver individuato una poesia di spessore fatta da “grandi”, quali gli autori trattati, per la loro capacità e qualità di raccontare le proprie traversie e sofferenze, per averci arricchito e per averci aiutato a riflettere, restituendoci la memoria di fatti storici, atto di amore, proprio perché la storia non può concepire frammenti e lacune, affinché non ci sia più nessuno che ancora poco sa, smarrito davanti ad una terra sconosciuta che è al di là dell’Adriatico, ma che nei cuori infranti di noi Italiani e particolarmente degli Italiani istriano dalmati, rimarrà sempre unita, di qua. Mirella Tribioli Maggio 2018 Parliamone in 15 minuti
Audio: 
Download: Audio icon La Poesia.mp3

Pagine