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Giuseppina Nieddu - Panasonica autore Simone Di Biasio

PANASONICA Di Simone Di Biasio

Simone di Biasio è un giovane poeta di 33anni. Nato a Fondi , cittadina di 40.000abitanti , nella provincia di Latina. Vive a Roma dove si è laureato in “Comunicazione”. Giornalista, si è sempre occupato di Poesia che in lui rimane al centro di una ricerca sperimentale che ha a che fare sostanzialmente con il linguaggio, con la sua origine e con l’origine di tutti noi che ( Pag 19) :

"Abbiamo abitato tutti una casa del novecento
Dove stanno i vecchi riposti negli stipi
Dove apriamo credenze piene di grascia
In saloni deserti da uno sfollamento,...
il passato è un innovazione da inventare”

Il libro che lo vede tra i Finalisti del Premio Frascati Poesia s’intitola PANASONICA . In una nota l’autore chiarisce il senso del titolo. Panasonica è una lingua nuova, impastata di frasi dialettali, di italiano pratico e di anglismi provenienti dalla società elettronica e musicale contemporanea che contribuiscono a formare i suoi interessanti ed inediti “ versi liberi”. Il giovane poeta è “colto” e consapevole che anche nella mescolanza di suoni tutto può risuonare in maniera poetica profondamente nuova perciò ognuno di noi vi si può riconoscere. In effetti le nostre case visitate da una trasformazione evolutiva molto accelerata, hanno partorito nell’arco di tre generazioni una lingua nuova che invoca richiede e trasmette “ Calmezza” . Il libro mi ha sorpreso fin dall’inizio. E’ edito nel gennaio 2020 da una nuova Casa editrice nata da un’Associazione per la Poesia: Il Ponte del Sale di Rovigo. E’ diviso in diverse sezioni. Nella prima intitolata LA CALMEZZA i versi (pag.20 ) Tu dicevi che ci vuole la calmezza,/ in tutte le cose visibili e invisibili /raccontavi con calmezza assisa dritta/ e la lingua dice che tieni ragione / perché la sera porta la calmezza /il mare la mattina ispira la calmezza / in casa deve abitare la calmezza. ci introducono subito in maniera creativa nell’intimità e nel cuore di questo giovane poeta che ci prende per mano, ci fa da guida facendoci visitare con lui le case del suo paese. Andiamo anche noi con stupore a visità i sepulcr’. “andiamo dal vivo a cercare qualcuno, a stanarlo nell’ombra di luce in cui se ne sta raccolto.” Così fin dall’inizio Di Biasio ci comunica il suo piacere di giocare con la lingua arcaica e nuova facendo danzare le parole in maniera inedita e affascinante ( questi giorni, mi son ritrovata anch’io ad adottare questa parola, sperimentando che mi aiuta a ricentrarmi con dolcezza e tenerezza, come un mantra inserito in un respiro profondo) In empatia con l’autore entro così ad ascoltare i suoni della mia casa panasonica interiore e tutto l’ambiente in cui sono nata e cresciuta e dove continuo a vivere, crescere, morire e rinascere con una calma stupefatta che s’irradia . E’ un pò come sperimento da anni nei laboratori di ascolto e produzione di versi delle classi elementari e medie che conduco a Frascati, all’interno dell’Associazione. Cuore vibrante della prima sezione del libro e di tutti i versi resta “la nonnità “, gli anziani, la memoria che scorre ( pag 21) nel corridoio in cui la casa lascia forma /sulla tua vecchia schiena e tu curva in avanti /sgrani gli occhi sgrani i rosari, tu piena di grazia /scamenti nella credenza gli affetti personali / e l’artrosi che di te si nutre t’ha fatta davanzale / da cui ci possiamo affacciare, guardare fuori / aspettare albeggi dai tuoi occhi di valle. Sono occhi che abbracciano la guerra che ha bombardato cuori e lingua, lingua che ritorna dall’America con il gergo navigato dei migranti . Sono versi che cantano le piccole cose preziose ( il primo centrino ricamato a mano dalla nonna) con le tinte crepuscolari di A. Fogazzaro G. Gozzano, di C. Govoni e del poema Italy di Pascoli.) Sono versi che serbano nel cuore e commemorano il bicchiere azzurro latte È morto oggi il bicchiere azzurro latte /scivolato da un gradino troppo alto /della credenza, avrebbe versato ancora./ Se n’è discusso a tavola/ come di una cosa viva, un vecchio / che assieme a noi beveva molto.// S’è infranto il sogno del bicchiere azzurro latte / di essere infrangibile: il silicio s’è sciolto / pure nelle nostre bocche ed è parso testamento, / i minuscoli detriti sparsi ovunque /una memoria esplosa di tutto un firmamento. // Ha dato da bere agli assetati, compito assolto //nella forma ed assoluta trasparenza. // Sono occhi che come il melograno vivono le diverse stagioni e si spengono “sul punto più alto di maturazione. // Mantenersi è un verbo di vertigine.” Amo molto l’atmosfera corale che sostiene, accompagna ed emerge dai versi che raccontano la morte degli anziani di S. Di Biaso . Atmosfera che ricorda quella del poeta contemporaneo F. Arminio e che mi riporta a casa nella mia terra di Sardegna. Cosa è successo? È successo che è morta… È successo che è morta? Sì. Successo. Trionfo, giubilo, processione di gente… Quando è successo? La notte è successo. / Quando allucca un bianco che sfonda il sonno. / Il corno che annuncia l’ora. / La sonata che annuncia loro alle porte. / È successo dove si è attesi. Ritornano in me le parole sagge degli anziani della mia terra nuorese che per ogni morte sentenziavano: ( A s’ora sua non mancat nemmos e su mortu non sinc’ andat chene prantu- Alla sua ora non manca nessuno e il morto non va via senza essere pianto) Il passaggio finale che attende tutti noi richiede la sacralità del silenzio, nella certezza che tutto scorre ( pag 36 ) dei morti nell’atto del morire non si può che dire solo il bene – chi manca è innocuo, un pensiero/ il passaggio è un delta dove mare e fiume sono ancora acque della stessa specie. Nella seconda sezione intitolata LA PAROLA PANASONICA la lingua è sempre la protagonista e il suono è sempre più correlato all’immagine. S. Di Biasio, allontanatosi dal suo paese per motivi di studio, come A. Manzoni, che sentì l’esigenza di sciacquare i panni in Arno”, sintonizza e alza il tono del volume della parola stereofonica. Grato per gli incontri con i suoi maestri, Libero De Libero e Rodolfo Di Biasio, suoi conterranei, spicca il volo e coniuga diversi registri attingendo all’informatica, alla tecnologia, ai mass media, usando consapevolmente tutti i mezzi come messaggi che rinnovano con Calmezza la polifonia delle varie voci e sapendo che “Saper dire è una ferita aperta.”e che “vedere è verbo, è parola che si odora” “Ti laverei nella tinozza verdeacqua dell’infanzia / dove a uscire si tremava in piedi e spogliati/ a imparare ancora la sfrenatezza della parola.” La terza sezione MADRE LINGUA Rimette al centro la forza della parola creatrice che ci riporta e ci fa ripartire dalle origini( pag. 55-56 ) questa forma verbale dialettale /mesce il capire dentro la capienza:/ se non ci capiamo, non ci entriamo/se non comprendiamo, stiamo fuori. Ovunque è materno.” Materno il corpo, il magnete che attrae il nord/ materno l’abbandono, il laccio lattante/ che conduce il raggio alla sua luna /la quale tira tira con forza riprende / la luce che offerse ai figli, /luce sfibrata, intermittente, che sta increpata.// In S. Di Biasio sa il rischio del bla bla che in lui diventa “ parola nuova solo quando stiamo muti, le nostre voci appese al silenzio /Il momento migliore è quando non succede niente.//” E’ quando in silenzio( pag.65) La madre passa a lucidare i nostri nomi:/ quando si toccano due tazze è mezzogiorno/ un’anta sbatte e una stagione si chiude// si dica soltanto una parola almeno – e si sarà salvati. L’ultima sezione è LA PAROLA NEO A sorpresa e’ qui che il registro poetico linguistico cambia, sembra scordare l’uso delle parole dialettali e, canta con termini prettamente informatici e tecnologici, memori della musica inglese contemporanea , canta un nuovo Cantico dei cantici, in cui il poeta si esprime con un erotismo vibrante perchè scopre di “ Essere riaccolto, riammesso nelle fila di questo tuo campo fertile di giuramento. Mi tieni in grembo e mi partorisci,/ le ginocchia piegate connettono i petti:/ per un poco il dolore si adagia sul collo,/ ogni secrezione si mesce: seme, sudore/, pianto e fuoco impastati nella stessa carne.// Pag. 86 Ho abitato per una notte le tue gambe/ le pareti di pelle mi sorridevano e riparavano/ dai vortici dell’aeroporto di Stanstead. /C’era un’abat-jour accanto alle tue gambe cuscino/con un neo grande che fa del nostro un neo-amore:/ respiravo e non temevo il buio come sarà prima di/morire. (Il caso d’essere amati è pari soltanto al caso d’essere nati.) (Gli sguardi sono imprevisti temporali.) Si, la Poesia e la lingua, come l’AMORE, sono sempre NEO, non finiranno mai di fornire nuovi significati perchè la Poesia è sempre scritta da un luogo aurorale che ci porta in fondo e oltre il pozzo, facendoci rinascere per imparare sempre meglio ad amare in ogni tempo e ad attraversare i travagli dei passaggi personali ed epocali. Saprà il giovane Simone Di Biasio e noi con lui, cantare e attendere il continuo travaglio vitale del parto del nascente in noi e attorno a noi, trasmetterlo e leggerlo con stupore e gratitudine, ai giovanissimi e alle generazioni future ? Lo auguriamo di cuore a lui e a noi, confidando nella forza terapeutica della POESIA e nella mirabile opera dell’Associazione FRASCATI POESIA che la diffonde con cura da più di sessant’anni. 

Giuseppina Francesca Nieddu 16- 09-2021

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Teatri Filosofici - "discorsi sul coraggio" - Arnaldo Colasanti Emanuele Trevi

Il nostro Arnaldo Colasanti conversa con Emanuele Trevi sul tema del coraggio. (AUDIO) Trevi è uno dei critici più celebri della sua generazione oltre che premiato scrittore. Ha tradotto e curato edizioni di classici italiani e francesi: si ricordano testi dedicati a Leopardi, Salgari, e autori italiani del Novecento. Tra le sue collaborazioni citiamo: il «Manifesto» (Alias) e la trasmissione radiofonica Lucifero di Radio Tre, con una sezione dedicata alla poesia. Il suo libro Istruzioni per l’uso del lupo ha riscosso un notevole successo. Redattore di «Nuovi Argomenti», ha fatto parte della giuria del premio Calvino nel 2001, e del premio Alice 2002. Nel 2012 esce per Ponte alle Grazie il libro Qualcosa di scritto. È stato editor per Fazi e ha collaborato con la casa editrice Quiritta. Tra le sue pubblicazioni: Istruzioni per l'uso del lupo (Castelvecchi 1994), Musica distante (Mondadori 1997), Figuracce (Einaudi 2014), Il popolo di legno (Einaudi Stile Libero 2015), Sogni e favole (Ponte alle Grazie 2019), Viaggi iniziatici (UTET 2021) e Due vite (Neri Pozza 2021) vincitore del Premio Strega nel 2021.
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Antonio Di Mauro -Società italiana spiriti-di Mirella Tribioli

Antonio Di Mauro -Società italiana spiriti- di Mirella Tribioli

Antonio Di Mauro nella sua immagine esteriore quanto interiore di gentiluomo, fatto di squisitezza e di buone maniere figura uomo di altri tempi, mentre in realtà pur nato nel 1950, non è né uomo anziano, né tanto più, vecchio, ma uomo di età grande questo sì, se non altro per la importante esperienza di un vissuto di travagli intimi e familiari, che hanno segnato in maniera decisa e amara la sua vita già nei suoi primissimi anni di infanzia e di adolescenza. Nato ad Aci Bonaccorsi (Catania), in quel distinguo di uomo siciliano qual è, incarna da subito, agli occhi di chi lo accosta, ancor più quelle movenze di uomo d'altro tempo anche per quel denso bagaglio di cultura che mostra a pie' sospinto nel suo parlare sillogistico, e in quei suoi scritti dirompenti, deflagrazioni di un pensiero che nella sua più completa forza, saldamente si insinua nella mente di chi lo legge. Scritti che nel loro alto senso di spirito critico si sentono leali e sinceri, rispettosi, nella loro discrezione, dei tempi di chi ascolta, seppure in una responsabilità di denuncia del bene e del male che in nessun modo evade, proprio per quell'essere uomo di valori che non si svende mai, con il mantenere sempre rapporti di alto livello, di rispetto verso gli altri, pur non scevri di quella qualità più coinvolgente che lo muove, quella passione tanto viva nei suoi versi. I personaggi che animano la sua poesia nel suo filo di memoria sono, talvolta, quelli che nel tempo ha sentiti avversari e che nel suo -sonno-sogno- di bambino ha combattuto come si combattono i fantasmi, anche se in un capacitato proposito ha deciso di non parlarne mai male, e soprattutto di non rinfacciarlo mai, per il piacere di essersi adoperato per quella scelta e basta, convinto che il balsamico -silenzio- adottato, sia più comunicativo di qualsiasi parola. Scrittore di grande impegno ha pubblicato diversi saggi letterari riguardanti particolarmente la poesia, e nel tempo i suoi stessi versi sono entrati in importanti riviste e nelle antologie. La sua prima pubblicazione del 1972 fu una plaquette , un piccolo opuscolo, “Diagramma”, a seguire nel 1986 pubblicò “Quartiere d'inverno” e nel 2003 “Acque del fondale”, espressione quest'ultima del rapporto eterno del destino dell'uomo in un corollario di natura, che sa di azzurro di cielo, di mare e di luce che travalica il buio che attanaglia il mondo, in una composizione di scrittura di verso che supera gli elementi strutturali della poesia lirica, già in quel suo significato di participio passato del verbo vertere che viene meno al suo significato di voltare, confermando la scelta dell'aspetto narrativo, così come con l'ellissi della metrica, della rima, della strofa e del ritmo. Ultima sua opera pubblicata nel 2019 è “Società italiana spiriti”, silloge poetica accreditata come finalista in questo 61° Premio Nazionale Poesia Frascati Antonio Seccareccia, una raccolta di narratività poetica che sviluppa a mo' di capitoli un tessuto di vita autobiografica, ed è proprio in direzione di questo aspetto che si giustifica, tra l'altro, l'adozione del sistema narrativo, non atipico esempio di moda poetica negli anni '70 e dell'esemplare poesia di Vittorio Sereni nella condizione precipua della sua arte. Il titolo potrebbe dare a credere che l'opera parli di dottrine spirituali, di un mondo esoterico, di verità occulte, dell'aldilà, quando realmente indica una piccola azienda di prodotti alcolici, una distilleria siciliana che condivide commercio con una più grande del Nord Italia, facendoci respirare la realtà sociale industriale che si avviava verso il boom economico degli anni '60. Nella descrizione di un viaggio di vita immerso in una forte “memoria” chiaro è il grido di -dolore- del nostro poeta per quel mondo sprofondato per gli affari andati male della Società Spiriti, dove suo padre aveva coinvolgimento per essere figlio d'arte in quanto suo nonno era già stato proprietario di una distilleria, e ora egli stesso con il vento in poppa, in un mondo roseo di una casa rinnovata e perfino un'amante si apprestava a implementarne una seconda. Nella sua suggestione di bimbo si figurava viaggi in continente di autotreni di distillato puro e in un aldilà possibile una congregazione ultraterrena di mutuo soccorso di entità nostrane, ricordo queste delle tante figure, personaggi del suo mondo, che avevano animato la piccola società industriale stessa, ora facenti parte come -spiriti- di quell'altrove, di quell'aldilà, di quell'oltre, quando erano state nel di qua entità di vita reale. Figure descritte in maniera minuziosa con aggettivazioni, in un senso di una parola ricca, alta, corposa, identificata dalla critica in quel lirismo barocco che fiorisce una poesia a cui ci si identifica per la sua forma di grazia. Intrigante risulta questo gioco di doppio significato, di rimando tra gli spiriti della società distillatrice e gli spiriti-persone divenute ora invisibili, seppur tra sonno e sogno rese quanto più visibili, pur se ormai figure dilatate e rarefatte. Da qui forse l'iniziale confusione nata in alcuni riguardo il titolo dell'opera? Figure che in quel gioco di specchio affisso a parete, di rimando, ci riporta con la mente a quella forma descrittiva, curata, ricca di dettagli, della innovativa pittura ad olio del fiammingo Jan Van Eicke dei coniugi Arnolfini nelle loro immagini ritratti frontalmente e nello specchio di spalle. Gioco di specchi incipit di una forma pittorica che diventerà esecutiva nel 1600 con Las Merinas di Velasquez. La pittura fiamminga non vede una grande contrapposizione tra tradizione ed innovazione nel passaggio dal Gotico Internazionale, gotico di cui il nostro Di Mauro nei suoi capisaldi culturali gode sicuramente consapevolezza, se è vero che l'alambicco troneggia nella torre della vecchia distilleria -come un santuario gotico-. Nell'entrare in maniera più dettagliata nell'opera di di Mauro, originale in questo suo paradigma di narrazione in poesia del proprio passato, certamente di pregio è la lettura dei vari segmenti che la compongono degni di “umana Pietas” Il primo “Storie dell'età dell'oro” è un po' tutta la summa della storia raccontata in questa raccolta. Una forte affabulazione, in una uscita dalle quinte di un palcoscenico tra cielo, fondale, architettura di natura e fantasia, in quello spazio scenico di terra d'origine -heimat- di casa, di luogo natio, di infanzia, di affetti sulla scia di quell'Hordelin recitativo non tanto della nostalgia romantica dell'uomo in una pallida età dell'oro, ma quanto più per il suo senso più profondo e segreto per la separazione dalla propria Patria, dalla propria terra. In questa sezione Di Mauro non esclude nulla del mondo creato, enumera i personaggi: nella sua emotività la protettiva nonna Concetta, la madre di suo padre; Michele l'operaio eroe tornato dall'America; la bella Elena, l'amante del padre di facile incontro, vistosa nei suoi capelli a toupet; l'avvocato del diavolo, ricordo del male che era entrato a colpire ad annientare tutto, fino al crollo della distilleria; il compagnetto di scuola velenoso nella parola nel rammentargli il fallimento del padre, durante un momento scolaresco gioioso quale quello della festa degli alberi, il consolatorio bastardino, indifeso cagnolino, vecchio Giulio; sua mamma che appariva bella a lui bimbo, in quel dolore percepito per l'amarezza del tradimento subito e a lui attaccatissimo, che intimidito, pauroso ogni giorno si spaventava all'idea di ritrovarla morta. Fortunatamente, però, come dice il nostro autore, la vita va avanti, fino al momento di quella sua famigliola ricomposta, con un padre ritrovato, in un puro spirito che profuma di anime. Quanti e quali bei sentimenti traspaiono da queste pagine fatte di sogni, di amore di gioia e di dolore, di solitudine, di morte, e non ultima perché in effetti sempre prima, di speranza! In maniera miniaturistica, nel proscenio di una natura interpretativa dei sentimenti umani, sono enumerati gli uomini, gli affetti, lo spazio, il tempo, quella specie di vocabolario della vita e del costume, dove tutto ha importanza e concorre a creare la storia. Il tutto in un esito di elemento unificante la luce nel suo fenomeno naturale, perché ciò che è rappresentato abbia giusto risalto e una precisa individuazione, e soprattutto nel suo aspetto metaforico. Di grande pathos è la lettura di questa sezione, dove come messaggio ultimo va letto il carezzevole significato dell'amore. Non a caso essa viene dedicata a Filemone e Bauci, i protagonisi della mitologia classica rappresentati anche nell'ottavo libro delle Metamorfosi di Ovidio, i due anziani sposi che inteneriscono il cuore per il grande indissolubile amore reciproco. A confutare questo dire, tra l'altro, lo scritto introduttivo della prima pagina “Venerdì di Passione” che nel calendario liturgico è il Venerdì Santo, dove Passione qui, invece è ancor più riferito all'intensità del sentimento amoroso che è anche sofferenza per varie ragioni. La seconda sezione è “Frammenti di lettere a familiari e amici”. Il tema che ivi predomina è la morte. Le missive sono indirizzate ai cari familiari defunti, al nonno, alla madre, al padre, agli amici poeti vivi e non, ai compagni di cammino come Maurizio Cucchi e Salvo Basso. Morte che però non è mai intesa come annientamento, perché proprio in quelle emozioni di ricordi di amore e amicizia la vita sembra ancora vitale e palpabile. “Pietà del figlio” è la terza sezione. In essa ancora, si percepisce l'alito della morte, ma in una religiosa devozione. “Il vecchio saggio biascica testardo la sua oratoria...Signore l'onnipotente del Padre Abramo che salvasti dal sacrificio Isacco... Quali colpe dell'origine espiamo per tutti sulla terra... io almeno ho confessato...eppure per stare qui un qualche reato grave l'ho commesso...la mia condizione di privilegio per la salvezza eterna...potessi ancora dormire e sognare...sul lastrone di tufo intagliato deposto il corpo non è ancora rigido...il dolore trovi le sue ragioni”. E questo indicibile lamento nella sua esternazione diventa la bella preghiera di fede, dove la pietà del figlio nella sua doppia valenza di lettura, metaforicamente diventa il Cristo che con la sua nascita, morte e resurrezione ha redento l'umanità. A seguire la sezione “Dentro oltre lo sguardo” perché di infinita bellezza entra nel cuore con le varie sottosezioni -Autunnale, A luce traversa, La luce di Nisan, Latitudine di luce, Notturni- essa vede di nuovo il tempo che investe nel suo raccontare quello della distilleria, delle angosce familiari subite in quella tenerezza di addio, in quella amarezza di tradimento conosciuto dalla madre, -sacrificio della vittima predestinata- in una poesia salvifica dove -la parola diventa vivente nel corpo ineluttabile della scrittura- così come il lutto, il lamento, il silenzio e le tenebre ritornando dal buio diventano speranza, fuoco che sa di luce nella cripta del cuore-. Le poesie di “diario clinico” chiudono questa raccolta come un epilogo di un poema dove il dolore si decanta e viene a riconciliarsi in quella morte che lascia il padre -piccolo essere inerte-, ma agli occhi del figlio perché ormai -vittima purificata nel sacrificio suo stesso- diventa -degno di essere chiamato padre, ombra tra le care, figura di memoria viva- apoteotica. “Società italiana spiriti” si consegna al lettore non sempre facile di lettura, ma opera bella, bella, bella, catartica nei suoi tanti messaggi di raffinata scrittura di effetto, scolpita nelle sue parole tra immagini e sensazioni create per suscitare emozioni senza filtri tra chi scrive e il lettore, perché come decomposizione della propria anima possa servire agli altri. Ricca dei tanti rimandi culturali è nell'eco di una pascoliana, dannunziana, montaliana memoria che ben impressiona chi legge, piacendo non poco al lettore che vive altri mondi, ogni volta confacenti ai propri nuovi mutevoli sopraggiunti stati d'animo.

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Il Doloce Stil Novo - Walter Casagrande

  UNA NUOVA LUCE: IL DOLCE STIL NOVO

 Dante usa la definizione di "dolce stil novo" nel canto 24 del Purgatorio ove egli incontra Bonagiunta..

«"Ma dì s'i' veggio qui colui che fore
trasse le nove rime, cominciando
Donne ch'avete intelletto d'amore."
E io a lui: "I'mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch'e' ditta dentro vo significando."
"O frate, issa vegg'io", diss'elli, "il nodo
che 'l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch'i' odo!"»

(Purg. XXIV, vv. 49-57)

 

Da questa frase il vecchio Bonagiunta riesce a cogliere la lontananza e la differenza del novo stile al suo e capisce che la novità del “dolce stil” va cercata all’assoluta fedeltà d’amore  .   

Il Dolce Stil Novo, è un importante movimento poetico italiano sviluppatosi tra il 1280 e il 1310 inizialmente a Bologna grazie al suo iniziatore Guido Guinizzelli, ma poi spostatosi a Firenze dove si sviluppò maggiormente.

Per quanto riguarda la novità sul piano stilistico essa riguarda l'amalgama linguistico metrico sintattico che deve risultare "dolce". Occorre un volgare illustre che sia il più possibile elevato e puro e insieme musicale e melodioso. Il pubblico delle nuove rime è quello molto selezionato e ristretto che proviene dalla nobiltà feudale e dagli strati intellettuali più elevati. Gli stilnovisti si considerano una cerchia eletta che trova nella sua superiorità culturale e nella propria raffinatezza spirituale le ragioni di un prestigio sociale non più dipendente dalla nobiltà di sangue ma solo da quella dell'animo.

Con il superamento della corrente poetica siculo-toscana (Guittone d'Arezzo,  Jacopo da Lentini e lo stesso Bonagiunta Orbicciani) i cui versi cadono, talvolta, in vuote espressioni formali, una nuova luce s'intravede, nella realtà cittadina e nel rapporto con una donna che scende per strada e va a messa. La donna appare per via e la sua bellezza colpisce il cuore del poeta  come una nuova visione e una nuova concezione del sentimento dell'amore.

Con lo Stilnovo si affermava, quindi, un nuovo concetto di amore impossibile, con i suoi precedenti nella tradizione culturale, nonché il nuovo concetto di donna, concepita adesso come donna angelo, donna angelica: la donna, nella visione stilnovistica, ha la funzione di indirizzare l'animo dell'uomo verso la sua nobilitazione e sublimazione: quella dell'Amore assoluto identificabile pressoché con l'immagine della purezza di Dio.                                                                                                                           La donna angelicata, è oggetto di un amore tutto platonico ed inattivo.  Parlare di lei è pura ascesa e nobilitazione dello spirito, puro elogio e contemplazione descrittivo-visiva che consente al poeta di mantenere sempre intatta e puramente potente la propria ispirazione in quanto diretta ad un oggetto volontariamente cristallizzato e, ovviamente, giammai raggiungibile.

POETI STILNOVISTI

Gli stilnovisti maggiormente rappresentativi sono: Guido Guinizzelli (bolognese), considerato il precursore del movimento, Dante Alighieri, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Gianni Alfani, Cino de' Sigilbuldi da Pistoia e Dino Frescobaldi.

Esaminiamo i più significativi:

Il primo stilnovista è stato senz'altro Guido Guinizzelli

Guido Guinizzelli

nasce a Bologna tra il 1230 e il 1240 e, secondo quanto riportato, muore a Monselice nel 1276. Sulla sua identità si hanno notizie scarse e discordanti: alla tradizione, che lo vuole podestà di Castelfranco, si è ormai sostituita un’altra ricostruzione, che lo identifica in un giudice o giurisperito, figlio di Guinizzello da Magnano e di un’esponente della famiglia Ghisilieri, di simpatie ghibelline, e di conseguenza profondamente inserito nella vicende politiche del suo tempo.: secondo questa ricostruzione, l’affermazione a Bologna del potere guelfo nel 1274 lo avrebbe portato all’esilio a Monselice, dove sarebbe morto due anni dopo.   La sua opera più importante è Il canzoniere, si compone di 15 sonetti e 5 canzoni.   Il poeta compone tra il 1265 e il 1276, ma non si ha una cronologia completa e affidabile delle sue opere. e questa incertezza sulla cronologia non permette una divisione accurata del percorso poetico dell'autore: con ogni probabilità si può definire una distinzione tra la prima giovinezza del poeta, di stampo guittoniano, e una seconda fase, che anticipa lo stilnovismo.  Rientrano nel primo periodo sonetti in settenari,  al secondo periodo, quello che si può definire come prestilnovista, appartengono le canzoni (in endecasillabi e settenari), i diversi sonetti il cui tema centrale è la lode dell'amata, quelli che anticipano le tematiche svolte in seguito da Guido Cavalcanti

Io vogli del ver la mia donna laudare
ed asembrarli la rosa e lo giglio:
più che stella dïana splende e pare,
e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio.

Verde river’ a lei rasembro e l’âre,
tutti color di fior’, giano e vermiglio,
oro ed azzurro e ricche gioi per dare:
medesmo Amor per lei rafina meglio.

Passa per via adorna, e sì gentile
ch’abassa orgoglio a cui dona salute,
e fa ’l de nostra se non la crede;

e no·lle apressare om che sia vile;
ancor ve dirò c’ha maggior vertute:
null’ om mal pensar fin che la vede.

 

 

Guido Cavalcanti nasce nel 1258 circa a Firenze in una famiglia guelfa molto potente che ha partecipato alla battaglia di Montaperti (1260) . Di carattere solitario, dedito alla ricerca poetica  e allo studio, Guido Cavalcanti è tuttavia inserito nella vita politica della sua città, al punto da venir promesso, nel 1267, a Beatrice, la figlia di Farinata degli Uberti, per favorire la pacificazione tra Guelfi e Ghibellini. Nel 1280 Cavalcanti figura tra i garanti della pace cittadina, ma nel 1293 viene esonerato dalle cariche pubbliche, in base a quanto stabilito dagli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella.  Cavalcanti partecipa in prima linea ai violenti scontri tra guelfi bianchi (per cui Guido, legato alla famiglia Cerchi, parteggia) e neri, al punto da rischiare di venire ucciso da Corso Donati, comandante dei Guelfi Neri, durante un pellegrinaggio a Santiago di Compostela. Nel 1300, durante il priorato di Dante, il livello degli scontri costringe le autorità cittadine ad esiliare i capi delle due fazioni; Guido è mandato così a Sarzana (nella regione della Lunigiana, al tempo particolarmente insalubre), dove probabilmente contrae la malaria. Richiamato a Firenze, Cavalcanti muore poco tempo dopo.

Perch’i’ no spero di tornar giammai,
ballatetta, in Toscana,
va’ tu, leggera e piana,
dritt’a la donna mia,
che per sua cortesia
ti farà molto onore.

Tu porterai novelle di sospiri
piene di dogli’ e di molta paura;
ma guarda che persona non ti miri
che sia nemica di gentil natura:
ché certo per la mia disaventura
tu saresti contesa,
tanto da lei ripresa
che mi sarebbe angoscia;
dopo la morte, poscia,
pianto e novel dolore.

Tu senti, ballatetta, che la morte
mi stringe sì, che vita m’abbandona;
e senti come ’l cor si sbatte forte
per quel che ciascun spirito ragiona.
Tanto è distrutta già la mia persona,
ch’i’ non posso soffrire:
se tu mi vuoi servire,
mena l’anima teco
(molto di ciò ti preco)
quando uscirà del core.

Deh, ballatetta, a la tu’ amistate
quest’anima che trema raccomando:
menala teco, nella sua pietate,
a quella bella donna a cu’ ti mando.
Deh, ballatetta, dille sospirando,
quando le se’ presente:
«Questa vostra servente
vien per istar con voi,
partita da colui
che fu servo d’Amore».

Tu, voce sbigottita e deboletta
ch’esci piangendo de lo cor dolente,
coll’anima e con questa ballatetta
va’ ragionando della strutta mente.
Voi troverete una donna piacente,
di sì dolce intelletto
che vi sarà diletto
starle davanti ognora.
Anim’, e tu l’adora
sempre, nel su’ valore.

Poetica e stile 

Guido Cavalcanti, studioso, filosofo e poeta, è anche l’animatore riconosciuto (e per certi aspetti il fondatore) del gruppo di poeti il cui movimento sarà poi riconosciuto come Stilnovo e che si pone sull’onda di sviluppo della lirica d’amore che va dalla poesia provenzale alla scuola siciliana. Il tema fondamentale della poesia è infatti una concezione d’amore che rielabora quella di Guinizzelli in direzione più intellettuale e drammatica, con significativi punti di contatto con le inclinazioni filosofiche dell’autore.

 La poetica d’amore di Cavalcanti è innanzitutto pessimistica: Amore è una forza ostile che coinvolge le facoltà umane e conduce inesorabilmente alla morte. Ad essere messe in luce sono due situazioni tipiche: l’angoscia che colpisce l’innamorato e il suo annichilimento, cioè la perdita di ogni facolta di reazione di fronte alla comparsa della donna. La poesia cavalcantiana si concentra così, partendo dalla base filosofica dell’averroismo.

Il poeta è infatti un esponente dell’averroismo, ovvero una forma radicale di aristotelismo all’interno della Scolastica medievale che si rifà alle opere del filosofo arabo Averroè (1126-1198). Il conflitto che l'amore genera nel corpo e nella mente dell’uomo e che alla fine lascia il poeta privo delle proprie funzioni vitali.

Al centro di tutto  c'è la rappresentazione interiore che l’uomo si fa della bellezza esteriore dell’amata. L’amore diventa di ostacolo alla conoscenza e provoca turbamenti interiori che culminano nell’oscuramento della ragione, da cui deriva l’impossibilità di dedicarsi all’attività speculativa dell’uomo.

Eppure, in opposizione a questa visione cupa e pessimistica del sentimento amoroso, la poesia di Cavalcanti presenta un altro aspetto di fondamentale importanza per il rapporto con lo Stilnovismo, ovvero la lode della figura femminile

La positività dell’amore, che si contrappone agli effetti drammatici della passione, si traduce allora in immagini e metafore che diventeranno riferimenti per i poeti della cerchia stilnovistica: il paragone tra la bellezza dell’amata e il mondo della Natura, il tema dell’apparizione della figura femminile nell’anima del poeta, l’affermazione convenzionale di non poter lodare a sufficienza la creatura femminile. Se quindi Cavalcanti getta le basi per la spiritualizzazione dell’amore degli stilnovisti, egli tuttavia non giunge mai a teorizzare la donna-angelo

Lapo, detto Lapo Gianni

 

Appartenne al gruppo fiorentino del Dolce stil novo e, in base ad atti storici articolati in un trentennio a cavallo fra Duecento e Trecento, risulta svolgesse molto probabilmente un'attività da notaio (viene spesso identificato con l'appellativo di notaio Ser Lapo, figlio di Giovanni Ricevuti, da cui il presunto cognome Gianni). . L’Archivio di Stato di Firenze conserva atti da lui rogati tra il 24 maggio 1298 e il 24 maggio 1328: poiché all’epoca occorreva aver compiuto vent’anni per essere ammessi al collegio notarile fiorentino si può calcolare la data della sua nascita negli anni 1278-80    Egli è, quindi, da identificare con il rimatore Lapo Gianni, a cui i manoscritti assegnano diciassette componimenti, che fu sodale di Guido Cavalcanti e di Dante Alighieri, menzionato da quest’ultimo nel De vulgari eloquentia.

Le sue composizioni - a detta dei critici - si distinguono per una particolare leggerezza e originalità.

È ricordato - oltre che per i suoi diciassette componimenti giunti ai nostri giorni (undici ballate, cinque canzoni e un sonetto doppio caudato) - per essere stato citato da Dante (del quale fu amico assieme a Guido Cavalcanti) nel celebre sonetto delle Rime che inizia con il verso Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io.

Mancano notizie precise sulla sua famiglia.

 

Nel vostro viso angelico amoroso

 

 

Nel vostro viso angelico amoroso

                 vidi i begli occhi e la luce brunetta,

                 che 'nvece di saetta

                 mise pe' miei lo spirito vezzoso.

Tanto venne in suo abito gentile

                quel novo spiritel ne la mia mente,

                che 'l cor s'allegra de la sua venuta.

                Dipose giù l'aspetto signorile

                parlando a' sensi tant' umilemente

                ch'ogni mio spirit' allora 'l saluta.

                Or hanno le mie membra conosciuta

               di quel signore la sua gran dolcezza,

               e 'l cor con allegrezza

               l'abraccia, po' che 'l fece virtuoso

 

 

DANTE ALIGHIERI

Non si può non concludere con la poesia di Dante che non solo cita e raggruppa i più significativi stilnovisti, ma estende l'idealizzazione dell'amore per la donna angelica alla esaltazione del sentimento dell'amicizia:

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento
e messi in un vasel, ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio;

sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ’l disio.

E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:

e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come i’ credo che saremmo noi.

 

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Ritorno al Sonetto - Patrizia Pallotta

Ritorno al sonetto

Cento Sonetti Indie di Luca Alvino

Nei sonetti è parecchio differente

-Anche se sembran strofe assai vicine

Comporre le quartine e le terzine

E farlo in modo acuto e intelligente.

 

Io penso che inequivocabilmente

Da Dante fino a Shakespeare le quartine

Sono più complesse, per le quattro rime

E il ritmo più magniloquente.

 

 

Sono cento i sonetti indie, che sta per indipendenti, dei quali Luca Alvino, poeta romano, ci fa dono con estrema semplicità e trasparenza,

I suoi versi potrebbero essere riassunti in unico lungo racconto, dove troviamo un luogo ideale e speculare relativo alle nostre problematiche quotidiane.

Alvino si presenta insieme alla collocazione naturale della vita , con tutti i suoi dubbi, incertezze attraverso la descrizione minuziosa di ogni pensiero che passa per la mente.

Il suo più grande desiderio è quello di volere, con la stessa determinazione del poeta P.Paolo Pasolini, scrivere ogni giorno, un sonetto, senza mai lasciare, con grande disciplina.

E’ attraverso i suoi versi che impariamo a conoscerlo e ascoltare le emozioni che lo circondano.

Il poeta trasmette tutta la sua angoscia per la depressione, per la voglia di vincere e

ritrovare sé stesso in ogni momento della giornata.

Per assolvere questo oneroso compito, cerca di gestirsi consultando medici che lo possano aiutare.

In una sua poesia dal titolo “Senza riuscire a riposarsi mai” , recita :

 

Esser desideroso di riposo

Senza riuscire a riposarsi mai

Stanchi, e non rassegnati alla stanchezza

Ed acquisire sempre più destrezza

Nell’arzigogolare mezzi ignari

In un intrico forte e voluttuoso…

 

Questo percorso che Alvino fa , è di sicuro come un diagramma dei suo stati d’animo, un increscioso diagramma oserei dire, in cui il poeta registra una radiografia della sua mente, e nella poesia “ La cura” i suoi versi suonano così :

 

metabolizzare le emozioni

e per resistere alle tentazioni

per rimanere dentro i miei contorni…

 

Vive nella sua propensione il desiderio pulsante per affrontare e vincere ,e la sua vittoria la riconosce attraverso i sonetti, nei quali ripone la speranza, vivendo alla

giornata.

Un elemento che denota un carattere pieno di coraggio , con immagini chiare, giornate combattive, anche semplici, un poeta che guarda il Festival di Sanremo,

ascolta e critica altre canzoni, mantenendo un ritmo preciso. Un grande lavoro, un impegno non indifferente.

Fra i suoi sonetti, fa menzione della sua famiglia : la moglie suo appoggio morale, i figli

che adora e la Fede in Dio, al quale si appella molte volte, esprimendo alcune volte il

timore d’averlo scoperto troppo tardi, riprendendo il pensiero di S. Agostino.

Il Papa , è citato in uno dei suoi sonetti con questi versi : Biancheggia il Papa solo nella spiaggia, rappresentata dalla Piazza S.Pietro e dalla sua solitudine nel chiedere aiuto a Dio per la pandemia

Alvino si circonda, spesso di silenzio, preferisce piuttosto scrivere che parlare, è il suo modo catartico espressivo, i versi sono il suo pane giornaliero, tutta l’opera rappresenta un monologo, trasmissibile agli altri.

Del periodo della quarantena parla in modo entusiasta, lo giustifica evidenziando la

vicinanza alla famiglia, pur se per costrizione, lo considera un periodo ottimo e il suo

sguardo si rivolge verso la Primavera in arrivo.

Alvino ci sorprende in questi cento sonetti indipendenti e dimostra il nostro stupore per la sua schiettezza , mentre nel sonetto “ Che meraviglia le contraddizioni” , rivela

un pensiero per dimostrare la sua verità e la non verità, così verseggiando :

 

In tutti questi versi ho accumulato

Tante menzogne e tante verità

Perché non m’interessa la realtà

Ma ciò che nel mio cuore ho meditato.

Mi contraddico già lo ha rivelato

Walt Whitman nella propria vastità

Sono fedele alla difficoltà

E mi compiaccio là dove ho sbagliato…

 

Uomo e poeta di cultura se nomina uno dei più grandi poeti inglesi, lo si deve riconoscere. Lascia Alvino nel corso della sua lettura, il lettore un po’ sorpreso con questo sonetto. Che sia l’uomo di Shakespeare, quello che si chiede “Essere o non essere?”, solo leggendo possiamo farci un’idea. Potrebbe trattarsi di pura e semplice autoironia, avulsa volutamente da qualsiasi tragedia. Oppure ci si chiede se Alvino usi

L’imprudenza del colophon iniziale : “Per raccontare bisogna essere imprudenti” frase di F. Scott Fitzgerald. Questo il suo messaggio ? L’ultimo sonetto il centesimo dal titolo “ Il tempo che verrà” e che riporto, incarna la verità cercata dal poeta stesso, una verità laddove esiste uno specchio colmo di una pletora di gente e di quel grande patrimonio dell’umanità nel riflesso della nostra stessa interiorità.

 

 

Patrizia Pallotta

 

 

 

 

 

 

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Giuseppina Nieddu - La Parola Poetica - AUDIO

La PAROLA POETICA sfida necessaria ed indispensabile in tempo di fame. Benvenuti, ben trovati e grazie a tutti, prima di tutti a Rita, instancabile organizzatrice dell’Associazione Frascati Poesia. Questo mio sesto intervento a” Quindici minuti” riprende e rilancia i miei precedenti incontri tenuti a partire dal 2014, e il cui tema di fondo è rimasto lo stesso. Il titolo “La Parola Poetica, sfida necessaria in tempo di fame” mi rimanda ad un mio recente verso che dichiara: ”La mia unica sfida è la fede nella Vita” e alla dichiarazione del poeta Pablo Neruda sulla Poesia: “ La poesia è un atto di pace-. La pace costituisce il poeta come la farina il pane” . Mi son sempre lasciata interpellare dalle parole. La Parola mi ha sempre attratto, pro-vocato, chiamato ad essere, come dice G. Caproni “come il minatore che dalla superficie, ( la propria autobiografia) scava, scava finché non trova un fondo che è comune a tutti gli uomini.” La definizione di Caproni e quella di Neruda parlano al mio cuore, hanno dato senso e profondità al mio nome e cognome ( Giuseppina Francesca Nieddu Farina) mi riportano alla casa dell’infanzia invasa di profumo, dove ogni quindici giorni assistevo al miracolo della trasformazione del pane che canta: la carta da musica, il pane carasau... Nell’Associazione Frascati Poesia, la Poesia è di casa. Da sempre se ne cura l’ascolto impegnato a fare Pace con noi stessi e ad amorizzare il mondo.” Nella mia esperienza di pratica quotidiana, andare verso il centro di noi stessi per darci pace e irradiarla,senza pretenderla nè farla pagare agli altri, significa imparare ad ascoltare il respiro per accoglierne i bisogni e superare il continuo rischio della distrazione e del giudizio che spesso si rivela un autogoal. I nostri incontri vogliono continuare ad essere, sopratutto in tempo di distanziamento sociale, essenzialmente amicali e politici. Come sempre vi invito all'ascolto ad occhi chiusi, per rivolgere meglio lo sguardo all' interno cercando di assumere una posizione comoda insieme alla verticalità della spina dorsale, sintonizzandoci con il respiro per darci almeno un po' il tempo di “arrivare qui, di stare qui ”. Praticare l'ascolto del respiro è una pratica semplice e allo stesso tempo molto difficile che richiede costanza e pazienza, mi / ci aiuta a cambiare sguardo e ad abitare poeticamente là dove sto... Da anni, in sintonia con l’Associazione ho condotto e conduco dei laboratori di poesia, nella Scuola Media ed Elementare di Frascati, Marino e Vermicino, dove l’ascolto del nostro respiro e dei versi di un grande poeta ci guidano e affinano la nostra capacità di ascoltare la forza della parola vibrante che risuona dentro di noi e ci consente di sperimentare il monito delfico “Conosci te stesso” . Questo spazio di ascolto in cui, lavorando insieme, possiamo ascoltare ed essere ascoltati, contattare idee e sentimenti senza paura di essere giudicati, offre e consente pian piano una vera e propria ri-creazione interiore, una autentica trasformazione Il laboratorio di Poesia , specie quello con i bambini delle prime classi elementari, mi appassiona forse perchè spero che l’ esperienza del Laboratorio accompagnerà me e questi bambini cosi’ fragili cosi’ permeabili, cosi’ profondi a non smarrire, il senso vero dell’ esistenza dentro il mondo della tecnica e del mercato. So che insieme a loro, in semplicità riscopro, una inedita forza interiore che generando versi risonanti e condivisi ci lascia aperti e in dialogo con sguardi altri, ampi. Con questa speranza invito anche voi a condividere il verso che avete scelto e riconosciuto come cibo per la vostra anima che chiede di essere nutrita con parole respirate, anche e sopratutto in tempo di fame e di tempesta. I versi che mi hanno chiamato, quasi folgorato, fin dalla scuola media e che continuano ad accompagnarmi, anche nei laboratori coi bambini, sono quelli del discorso di Ulisse ai suoi compagni nel XXVI Canto dell’Inferno: “Considerate la vostra semenza:/ fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza” e quelli del poeta mistico persiano Yalal-Al-Din-Rumi (1207-1273): Anche se non hai piedi/ scegli di viaggiare in te stesso/ come miniera di rubini sii aperto all’influsso dei raggi del sole./ O uomo !Viaggia da te stesso in te stesso,/ che da simile viaggio/ la terra diventa purissimo oro. Ora condividiamo l’oro dei versi che avete scelto e che continuano a nutrire la vostra anima e qui mi metto in ascolto e mi taccio Chi è il poeta? Niente e nessuno se non uno che prima di tutto si mette in ascolto e si pone delle domande che lo mettono umilmente a nudo ogni giorno come se fosse il primo, come se fosse il solo, come se fosse l'unico perchè sperimenta che ogni evento accade per la prima volta e che la Parola respirata e ispirata salda in eterno, qui ed ora. attimi e millenni. In tempi in cui la parola è manipolata, banalizzata, strumentalizzata, violentata, consumata e slavata urge ri-scoprirne la dimensione etico- poetica, consapevoli che la parola è cio’ che fa di noi degli esseri umani. Ci permette di dire “noi”, di vivere insieme nella Polis e di custodire la testimonianza vissuta da Etty Hillesum ad Auschwitz: “A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi” Come sostiene Hanna Arendt “è il linguaggio che fa dell’uomo un essere politico” L’uomo è il solo animale parlante, la parola è prima della comunicazione. Quando la parola si corrompe e viene svuotata di senso si corrompono le relazioni e viene minata la fiducia . La difesa dell’umanità passa attraverso la difesa della parola, elemento che rende umano l’uomo e che gli consente di sviluppare e curare rapporti di prossimità. L’uomo di parola, che osa una parola limpida, sa il prezzo alto della parola veritiera che può diventare martirio della parola, come Socrate e Gesù che non hanno scritto nulla ma ne hanno mostrato la potenza e la forza straordinaria che rende colui che parla un essere responsabile delle sue parole . Solo la Poesia sa trovare parole nuove per cantare e raccontare l’Amore Si, il linguaggio poetico è come la lingua Materna è la casa parlante da dentro e che portiamo nel mondo. Ci offre una stanza rifugio-riparo anche nella tempesta. E’la lingua del cuore , delle emozioni e degli affetti, innerva i nostri ricordi e passando attaverso la porta dell’ascolto profondo, ci permette di raggiungere il cuore, di ascoltare e meditare il Mistero del Silenzio che abita al fondo di noi stessi. Come matrice e lievito si fa pane poesia preghiera che nutre e ritrova il senso del nostro errare. Il nostro più profondo desiderio è di fare della quotidianità della poesia un atto continuo di Pace che ci renda, qui ed ora , cansapevoli di essere eterni pellegrini costruttori di Pace. La Parola e la Pace nascono prima di noi, sono i messaggeri del Sogno divino, sotteso nell’Umanità della Terra. Scrive il Profeta Isaia:“ forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra.” La Pace non è solo assenza di guerra: va coltivata come un fiore e non c’è pace se c’é vendita e costruzione di armi che in diversi paesi, vengono distribuite anche ai bambini-soldato insieme ad alte dosi di droga per farli diventare insensibili più che forti e coraggiosi. Scrive Emily Dickinson I, LXXIII(739): Molte volte pensai giunta la pace/ quando la pace era lontana; / cosi’ i naufraghi credono di vedere la terra/ nel centro del mare,// e indeboliti lottano, soltanto per scoprire, / come me disperati, /quante rive fittizie / vengono prima del porto.// Il linguaggio poetico è sovversivo, rivoluzionario, evoluzionario. Nella crisi sa leggere e cogliere nello squilibrio e al di là del dissesto un passo avanti per entrare nelle relazioni tra persone, popoli ed umanità, terra e risorse naturali, in un altro modo che realizzi il Sogno. Per essere costruttori di Pace occorre prendere coscienza che la coscienza cosmica, in continua evoluzione è una. Finchè non ci diamo Pace, continueremo nell’illusione di poter difendere meglio solo il nostro paese. I dati non sono numeri disgiunti dalle persone. Nel 2019 sono stati spesi 19 miliardi in più per gli armamenti, miliardi sotratti alla Sanità e alla Cultura. Costruire armi significa venderle agli altri paesi e alimentare cultura di morte e illegalità. Davvero occorre svegliarci per cambiare le nostre relazioni negli spazi quotidiani, a partire da quella con noi stessi imparando a saper coltivare il Silenzio. Il Silenzio parla e si incarna come parola attiva e creatrice anche dentro il deserto e l’esilio e i poeti di tutti i tempi, conosciuti o sconosciuti “sono i misconosciuti legislatori del mondo” (P.B.Shelley) Come scrive Aristotele, compito del poeta è di dire non le cose accadute ma quelle che potrebbero accadere. La poesia tratta dell’universale, la storia del particolare. Ogni quartiere dovrebbe avere un comitato per la Pace, un luogo dove esercitarsi nell’arte del Silenzio, e dell’ascolto per imparare a fare Pace. Come dentro un laboratorio poetico, urge imparare a lavorare insieme e a studiare con testi di altre lingue e culture per assumere uno sguardo cosmico, contempl-attivo che si prende cura della Polis a partire dalle periferie e dalle povertà che albergano in ogni essere umano. Cito ancora PABLO NERUDA cantore della passione intima e civile, nella sua Ode per la PACE. Rivolgendosi a tutte le cose fa un’ invocazione interessante: Sia pace per le aurore che verranno / Pace per il ponte, pace per il vino / Per le parole che mi frugano / più dentro e che dal mio sangue risalgono / legando terra e amori con l’antico / canto; e sia pace per le città all’alba / quando si sveglia il pane, pace al fiume // pace al libro come sigillo d’aria, /e pace per le ceneri di questi morti / pace per il fornaio e i suoi amori / pace per la farina / pace per tutto il grano che deve nascere / pace per ogni amore che cerca schermi di foglie / pace per tutti i vivi / pace per tutte le terre e per le acque. // E ora qui vi saluto/ torno alla mia casa, ai miei sogni, / ritorno nella Patagonia, dove / il vento fa vibrare / le stalle e spruzza ghiaccio l’oceano./ Non sono che un poeta e vi amo tutti, / e vago per il mondo che amo. // Ma io amo anche le radici / del mio piccolo gelido paese./ Se dovessi morire mille volte, / io là vorrei morire/ Io non voglio che il sangue / torni a zuppare il pane/ Io qui non vengo a risolvere nulla. // Sono venuto solo per cantare / e per farti cantare con me.// La Poesia e’ il GrandeViaggio verso l’infinito del nostro desiderio piu’ profondo. Ci consentirà di riscrivere la nostra Storia che è stata fatta troppo al maschile . La Poesia come la Pace è Donna, è finestra di dialogo, con la Madre terra e con il cielo. Urge abbandonare la mentalità di guerra e far memoria che nel cammino della Pace c’è molto bisogno delle donne e della forza creatrice dello Spirito che continui a suscitare Poesia e Canto, imprescindibili e sempre nuovi compagni di uomini e donne costruttori di Pace che si riconoscono consapevolmente diversi come fratelli e sorelle, per godere, anche dentro la fragilità il tempo che ci è dato di vivere. Cantare nel buio all’aurora che viene per inaugurare ogni giorno la politica della Luce e fare della Polis un amorizzato villaggio globale pacificato, è forse il più alto impegno divinamente umano per cui valga la pena Vivere fino all’ultimo Respiro. BIVACCO La mia anima nomade / si scalda attorno al bivacco / acceso è il fuoco/ davanti alla tenda / piena di amici viandanti / che a piedi incrociati / cantano nel buio / canzoni d’amore.// ((Giuseppina Nieddu )2005 Continuiamo a Respirare con i versi di Mary Oliver (Ohio-Usa1935-Florida 2019) DICHIARA PACE Dichiara pace con il tuo respiro. Inspira uomini d'arme e d'attrito, espira edifici interi e stormi di merli dalle ali rosse. Inspira terroristi ed espira bambini che dormono e campi appena falciati. Inspira confusione ed espira alberi di acero. Inspira quanto è caduto ed espira amicizie di tutta una vita ancora intatte. Dichiara pace con il tuo ascolto: quando senti sirene, prega ad alta voce. Ricorda quali sono i tuoi strumenti: semi di fiori, spilli da vestiti, fiumi puliti. ... Agisci come se l'armistizio fosse già arrivato. Non aspettare un altro minuto. Pay attention / Be astonished / tell about it.// ( Fai attenzione / stupisciti / raccontalo.) Concludo con la riflessione di Franco Arminio(Bisaccia Avellino 19-2-1960) C’è solo il respiro, forse ce n’è uno solo per tutti e per tutto. Spartirsi serenamente questo respiro è l’arte della vita. La faccenda è teologica. Abbiamo bisogno di politica e di economia, ma ci vuole una politica e un’economia del sacro. Ci vuole la poesia…. Non so quando è accaduto il massacro di ciò che è lieve, lento, sacro, inerme. Adesso per tornare a casa, per tornare assieme nella casa del mondo,non serve la rabbia, non serve lo sgomento, basta sentire che ogni attimo è un testamento... Oggi essere rivoluzionari significa togliere più che aggiungere, rallentare più che accelerare, significa dare valore al silenzio, al buio, alla luce, alla fragilità, alla dolcezza.
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La Narrazione - tra suggesione, emozione e sentimento

Ogni cosa in questo mondo ha in se la capacità potenziale di produrre suggestione, emozione e sentimento, basta saperli cogliere: Mughini in un suo racconto osservava “ la mia poltrona fa parte di me; su quella poltrona ho meditato, ho sognato, ho urlato, ho pianto” , quando la guardo vedo in lei tutto il mio passato, la mia gioventù, la mia speranza, tutte le delusioni ed il dolore di alcuni giorni. Le arti nelle loro infinite espressioni, figurativa, musicale, teatrale, fotografica , cinematografica ecc , ed il mondo virtuale sono in grado di indurre suggestioni, emozioni e sentimenti con grande effetto, ma ciò avviene se riescono a narrare nei diversi contesti con un appropriato dominio dei suoni, dei toni, dei colori e delle tecnologie, in buona sostanza di tutto ciò che è in grado di emozionare e lasciare un segno in ciascuno di noi. Per ognuna di esse esistono tecniche specifiche frutto di una lunga e collaudata esperienza, sempre in evoluzione.

Allegati: 

D'Annunzio - La questione fiumana - Mirella Tribioli

Gabriele (D’Annunzio è il cognome di uno zio adottivo, che peraltro gli piace sentendosi l’Arcangelo annunciatore alle genti), figlio di Francesco Paolo Rapagnetta e Luisa De Benedictis, si dimostra allievo diligente, primeggiando negli studi. Il collegio che frequenterà a Prato nella colta terra toscana, correggerà la sua inflessione dialettale e lo preparerà ad una disinvoltura linguistica. Le chiare attitudini letterarie gli fanno ben presto privilegiare la poesia e Carducci come poeta-vate, in quanto egli stesso si sente predestinato a questo ruolo-vate per il destino della nazione e come celebratore degli eroi. A soli sedici anni, anche per il sostegno economico del padre, contento dell’affermazione di questo figlio prodigio, pubblica Primo vere con grande consapevolezza poetica, compenetrato già in una ricercatezza di stile, che gli sarà del resto consona in tutte le sue produzioni artistiche. Primo vere non sarà altro che l’inizio di una prolifica e poliedrica produzione letteraria, che vede un alternarsi di testi in poesia e prosa, come giornalista, novelliere, romanziere e drammaturgo. In maniera più singolare si potrebbe dire, però, che è la prima guerra mondiale a segnare una divisione nelle opere e nelle gesta di questo scrittore soldato, di questo poeta eroe. Fanno parte del primo momento che vede più preponderante lo scrittore-poeta: Canto novo, L’Isotteo e la Chimera, Elegie romane, Poema paradisiaco, Odi navali, Intermezzo, Laudi, Il piacere, Giovanni Episcopo, L’innocente, Trionfo della morte, Le vergini delle rocce, Il fuoco, Forse che sì forse che no, La Leda senza cigno, Sogno di un mattino di primavera, La città morta, Sogno d’un tramonto di autunno, La Gioconda, La gloria, Francesca da Rimini, La figlia di Jorio, La fiaccola sotto il moggio, Più che l’amore, La nave, Fedra, Le martyre de Saint Sebastien, La crociata degli innocenti, La pisanella, Parisina, Il ferro. Appartengono invece, al secondo momento dello scrittore-soldato: Canzoni delle gesta di oltre mare, Per la più grande Italia, Notturno, La canzone del Quarnaro, Faville del maglio, Canti della guerra latina, Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D’Annunzio tentato di morire, ed ancora i tantissimi discorsi, proclami. Intelligente, spregiudicato cerca con tutti i mezzi notorietà, come quando, in concomitanza alla sua prima pubblicazione, dà ai giornali l’annuncio della sua morte, consapevole che una tale notizia, gli avrebbe portato consenso, come del resto accadde, nel costruirsi un’immagine pubblica. Per lo stesso motivo ama circondarsi di personalità e tale è già il pittore Francesco Paolo Michetti, che diventa suo amico, o la duchessina di Gallese Maria Hardouin, che diventa sua moglie. Una vita prepotentemente all’insegna del clamore, tra sperpero di denaro, amori che vanno e vengono, e in questo non dissimile da suo padre che aveva lasciato la famiglia in disastrosa situazione economica. Consapevole che la poesia non “dà pane” si costringe ad un lavoro di giornalista, ma solo per breve tempo, perché insoddisfatto torna a soli venticinque anni a scegliere di essere letterato, lasciata la moglie e i tre figli. Di lì a seguire sarà solo scrittore, anche perché “nutrito di tanta cultura”, Carducci, Capuana Verga, Flaubert, Maupassant, Zola, Baurget, Barrès, Dostojevsky, sono i suoi riferimenti letterari, che peraltro lo sollecitano ad un superamento del naturalismo, realtà precipua della sua prima opera, per accostarsi ad una introspezione psicologica, che caratterizza sempre più i primi anni del Novecento. L’affermazione di un Decadentismo alla ricerca di miti umani, dettati da scrittori e pensatori come Nietzche, diventeranno altrettanto grandemente significativi per il giovane scrittore. E’ proprio in queste forme decadentistiche che D’Annunzio si identifica col suo ideale di Bellezza e di Forza, nel cantare la natura della sua terra natale, nonché la sua Patria in uno spirito glorioso e sensuale. Sensualismo che gli fa privilegiare le condizioni poco comuni e che travasa nelle sue opere o che talvolta tralascia per intenti politici e irredentistici, delineando la teoria del Superuomo, di un eroe privo, perché no, anche di intenti morali, inteso come è alla violenza e alla forza pur di affermare i suoi istinti. Queste immagini lasciano talvolta un senso di vuoto. L’irrequietezza del suo pensare e del suo agire frastorna e ci rende estranei, ma il più delle volte ci coinvolge, perché la crudeltà come il tramonto, un delitto come un viaggio o una battaglia, fanno parte della vita. La visione “panica” che lo scrittore confronta con il suo stile rivestito di perfezione formale, rende la sua espressione artistica più intensa e stempera la virilità che gli è altrettanto propria e naturale. In questo concerto di sensualismo, naturalismo e di naturalismo sensuale, si raccorda il mito del Superuomo dannunziano di cui si farà interprete ed eroe nella difesa di quella “Vittoria mutilata”, espressione da egli stesso coniata per indicare quella vittoria militare ottenuta in battaglia e vilipesa nelle trattative diplomatiche. D’Annunzio forte della sua vitalità, non era nuovo alle azioni politiche e alla causa italiana: infatti era già stato eletto, come uomo di destra, deputato per la ventesima legislatura del 1897. Aveva profuso tutte le sue energie per la sua riuscita elettorale, come egli stesso aveva testimoniato: “…Torno ora da un giro elettorale ed ho ancora piene le nari di un acre odore umano. Questa impresa può sembrare stolta ed estranea all’arte mia e contraria allo stile di vita mia, ma per giudicare la mia attitudine bisogna attendere l’effetto a cui la mia volontà tende direttamente…”. E, non coerente alla vita politica, ma coerentemente alla vitalità della sua fervida vita, in occasione delle leggi repressive proposte da Pelloux, non si esenta dal sottrarsi a critiche e commenti, passando alla sinistra al grido di “…Passo verso la vita!”. Ed è sempre in questo alternarsi di affermazione artistica e di soldato-eroe, che non è estraneo ad imprese di patriota italiano, quando nel maggio del 1915 predica l’intervento dell’Italia in guerra con accesi discorsi “Per la più grande Italia”: si fa volontario non risparmiandosi nel 1917 come soldato sulle montagne del Carso; come aviatore su Vienna, Pola e Cattaro all’insegna di quel grido greco-romano, da egli stesso riproposto: “Eia, eia, alalà”; subendo il distacco della retina di un occhio in seguito ad un atterraggio rischioso; privilegiando con il suo MAS imprese quali “La beffa di Buccari” del 1918, quando entra nel golfo del Carnaro per gettare in mare bottiglie contenenti messaggi oltraggiosi per il nemico, o quando volando su Vienna, invece di bombe, lancerà volantini per invitare i nemici ad arrendersi. Autocelebrando comunque le proprie imprese in termini sublimi e di eroismo, perché ormai “il dandy” si è trasformato in un superuomo che subordina tutto all’affermazione: Ritornato viene accolto come un valoroso e da qui rinforza il gusto per il gesto eccezionale, spettacolare inimitabile. Il mito dell’eroe, del superuomo non è, però, una condizione dannunziana, visto che già nel seicento e poi con Goethe c’era stato l’anelito da parte delle persone di superare mi propri limiti. L’accezione razzista-nazionalista, testimoniata dal nazismo è però dell’età del poeta. Uomo d’azione, intrepido sostenitore dell’Istria e della Dalmazia in Italia, ma è con l’impresa di Fiume che renderà perenne nel tempo la sua immagine, perché Fiume è per D’Annunzio, come dice in una lettera a Don Rubino suo amico, “Causa Santa…la più pura e la più alta che sia nel mondo …merita…non soltanto la vita, che è lieve, ma ogni altro bene…Io non lascerò Fiume se non morto. Ma neppure morto, ché desidero riposare in vista del Quarnaro, all’ombra di quei lauri”. Del resto, sollecitando già i marinai d’Italia in Fiume italiana e tutti i marinai d’Italia nell’Adriatico italiano, con un fare estetico-politico aveva tratteggiato quell’Adriatico a lui tanto caro perché “… E’ sempre stato per noi un mare di vita perché ci appariva come una forma della nostra passione e come una forma della nostra speranza. Era nostro perché non avevamo mai cessato di volerlo nostro…”. E’ un amplesso sensualistico panico di superomismo quello del poeta nei confronti di Fiume e della Dalmazia, che i trattati della prima guerra mondiale non avevano riconosciuti assegnati all’Italia. Tanto sangue sparso non era riuscito a riscattare l’italianità di un popolo che si era sentito italiano da sempre. Questione fiumana (12 settembre 1919) Aspetto geografico Fiume si sviluppò come città ad ovest del fiume Eneo, corso d’acqua di origine carsica ricco e inesauribile. Porto estremo della Venezia Giulia, situato tra la penisola Appenninica e la Balcanica, si affaccia sul Golfo del Carnaro. Nell’era prebellica la città fu ricchissima di industrie e porto importantissimo. Per questa condizione fortunata nel secolo XIX sorse sul territorio limitrofo politicamente croato una città nuova, Sussak che ne limitò l’economia e l’espansione. Aspetto storico Nel 60 a.C. in questo territorio troviamo un insediamento dei romani: sono di questo periodo notizie di un’area chiamata Tarsatica, centro abitato al di là della fiumara. Nel XIII secolo al posto del nome Tarsatica, come terra fluminis, diventa Fiume. Alla fine dell’impero carolingio passò sotto i Vescovi di Pola, poi sotto i Signori di Duino, i Frangipane e i Conti di Walsee (1400). Nel 1466 sotto il sovrano Federico III d’Asburgo. Venezia la sentiva rivale già da quando si era resa “Libero Comune”; la situazione peggiorò quando scoppiò il conflitto tra Massimiliano di Asburgo e Venezia (Lega di Cambrai). Nel 1627 era dei Gesuiti e in questo periodo ancor più si diffuse la cultura latina e italiana. Successivamente Fiume riuscì a farsi riconoscere autonoma: Maria Teresa volle sottoporla a Trieste ma dovette fare marcia indietro. Nel 1776 divenne porto dell’Ungheria, tramite la Croazia, ma i fiumani protestarono e Maria Teresa la rese autonoma dalla Croazia stessa. Nel 1779 fu riconosciuta “Corpus Separatum” perché annessa alla corona ungarica senza mediazione. Successivamente subì il dominio napoleonico e austriaco e nel 1822 Fiume ritornò alla corona ungarica, cosa gradita ai fiumani perché l’Ungheria da sempre aveva rispettato la lingua, le tradizioni e le istituzioni italiche della città. Nel 1848 la Croazia in seguito ai disordini dell’Ungheria occupò Fiume, cercando di croatizzarla: le opposizioni dei notabili fiumani incoraggiarono l’Ungheria alla riannessione e i croati dovettero accettare tale soluzione (1870). Dopo il ritorno di Fiume sotto gli ungheresi, essi imposero il proprio dominio, ma i fiumani che nei tempi per lingua e costumi, si erano sentiti sempre italiani, cominciarono a pensare all’Italia come Patria e quando scoppiò la prima guerra mondiale, mettendo a confronto l’impero austroungarico e l’Italia stessa, la maggior parte dei fiumani, eccetto gli autonomisti ed i panslavisti scelsero l’Italia. L’Italia era intanto entrata in guerra con delle richieste condivise dall’Intesa, ma il Patto di Londra (26-4-1915) aveva assegnato il porto di Fiume ad altro Stato; nel Trattato di Parigi (10-9-1919) l’Italia reclamò Fiume, ma la neonata Jugoslavia chiese i territori che il Patto aveva assegnato all’Italia, quindi l’Istria, Trieste e la Dalmazia tutta, mentre la Francia e l’Inghilterra negavano l’annessione di Fiume e Wilson, in nome degli Stati Uniti chiedeva all’Italia la rinunzia alla Dalmazia e di Fiume, ma i fiumani si mobilitarono per ottenere l’annessione all’Italia. La Conferenza di Parigi ridusse il contingente italiano nei territori adriatici orientali occupati dopo la vittoria; Gabriele D’Annunzio, animato da fiero spirito nazionalistico e i suoi legionari (nome da lui stesso dato dai soldati a cui si era messo a capo), decisero allora l’occupazione della città (Marcia di Ronchi 12-9-1919), dando luogo alla questione fiumana, in opposizione alle decisioni del governo italiano, determinando una sedizione contro lo Stato stesso. Così facendo D’Annunzio rivendicava quel ruolo di poeta-vate a cui si era sempre sentito chiamato, in virtù di quel superomismo che era diventato la sua fede e di cui viveva l’evoluzione, svincolato da ogni remora etica. D’Annunzio, del resto, era convinto che solo lui, che aveva appoggi dall’Italia, dai paesi alleati e dall’America, avrebbe potuto risolvere tale questione. Tra l’altro con questa scelta non fece che avvalorare lo scopo che aveva perseguito per tutta la vita “votarsi alla gloria”. Un esercito di arditi sempre più numeroso, lo sostenne in questa impresa, condivisa tra l’altro dal politico Benito Mussolini ormai alla guida del partito fascista. Per il poeta-soldato non era, del resto, una condizione nuova dilatare la vita alla legge del “vivere o morire”, “gioia o morire”, nel voler dominare il mondo con il suo istinto, con quel superomismo appunto con il quale tutto è, tutto gli è permesso. E la vita dell’eroe diventa l’essenziale del suo pensiero e non soltanto per le sue opere letterarie. Intanto mentre gli alleati si allontanavano, i fiumani gli affidarono i pieni poteri. Wilson cercò di rendere Fiume Stato indipendente, mentre Nitti tra tentennamenti e ipocrite dichiarazioni prometteva di risolvere la questione. La Iugoslavia, questo nuovo regno dei Serbi, Croati e sloveni (SHS), disattesa da lui come Stato e intesa come una specie di “Malebolge terrestre”, respingeva le pretese italiane di una indipendenza della città. D’Annunzio assumendo i poteri civili rimessigli dal Consiglio Nazionale, proclamò la Reggenza Italiana delineata nella Carta del Carnaro e sostenuta dalla volontà dei fiumani, che con il Proclama del 30 ottobre 1918 avevano già dichiarato liberamente “la dedizione piena e intiera alla madre patria”. Il Trattato di Rapallo del 1920 rendeva, però, Fiume stato indipendente e libero, per ottemperare a quanto stabilito negli accordi internazionali. D’Annunzio e i fiumani non riconobbero il Patto e, alla vigilia del Natale 1920, Fiume fu bombardata dalle navi italiane per ordine del Regio governo. “Il Comandante” nel disperato tentativo di evitare il tragico scontro civile, aveva fatto lanciare dagli aerei fiumani dei volantini sulle truppe del generale Ferrario, recitanti: “Ai fratelli che assediano i fratelli” “…Le vostre madri non sanno che voi siete per compiere il fratricidio. Non sanno che voi martoriate una città non colpevole se non d’aver sempre sofferto per l’Italia, se no d’aver sempre creduto nell’Italia, se non d’esser sempre fedele all’Italia…”. Ed ancora compiute le tragiche giornate del “Natale di sangue”, dove lui stesso fu ferito da calcinacci alla testa ed altri compagni morirono, fece lanciare foglietti volanti su Trieste e Venezia “… il delitto è consumato. La terra di Fiume è insanguinata di sangue fraterno…”. Bellissime e dolorosissime sono le pagine di prosa “Commento tra le tombe” redatte dal poeta per l’evento. D’Annunzio per un cuor patrio che lo chiamava al rispetto dei fiumani, temendo la minaccia della distruzione dei suoi abitanti e della città, decise di lasciare Fiume nella piena libertà d’azione e si dimise rinunciando al comando dei legionari, consapevole di essere stato l’interprete di uno dei momenti più drammatici della nostra storia presente. Fiume ebbe un governo provvisorio retto dal dannunziano Antonio Grossich. Il trattato di Rapallo aveva riconosciuto ai croati Porto Baross, condizione che comportò a Fiume molti disordini per le prevedibili, disastrose conseguenze economiche, ma questo sacrificio era inteso come tributo per l’annessione all’Italia proposta da Mussolini e confermata con il Patto di Roma (27-1-1924). Quel Mussolini che con un colpo di stato con la Marcia su Roma si era garantito il governo, marcia che D’Annunzio non aveva partecipato, pur avendola egli stesso preparata, nella convinzione che questi sarebbe stata solo una meteora di poco conto e tempo. Qui il suo grande errore, perché “il Duce”, pur strumentalizzando la sua figura come poeta ufficiale del fascismo, lo relegò sempre più fuori della vita politica, temendolo come potenziale avversario. D’Annunzio, però, si terrà fuori dalla mischia di quel movimento che pure aveva precorso, allontanandosene ora, non condividendone tutti i punti del programma. Come l’araba fenice che rinasce dalle sue ceneri, si dedicherà alla costruzione della sua casa museo sul Garda con i contributi dello Stato, casa che renderà maestosa e bizzarra nella sua ricerca esasperata di estetismo come aspirazione al sublime, nonché autocelebrativa per magnificare la sua persona: sarà il suo lascito agli italiani, come si evince dall’incisione sul portale d’accesso: “Io ho quel che ho donato”, coerente fino alla fine al suo ideale di persona superomistica, compromessa però da un senso di stanchezza e di morte, condizione che renderà più meditative le sue riflessioni autobiografiche o riguardanti la guerra, determinando il superamento della tensione superomistica stessa e confermandolo poeta più sensibile in questa vulnerabilità della sconfitta. Sprezzante della volgarità della massa, nella sua condizione aristocratica, antidemocratica e di ricerca di sensazioni raffinate, diventato egli stesso fenomeno di massa, determinando il suo successo con una capacità di intuire in anticipo i gusti del pubblico, adeguandovisi: ‘fatto di costume’, modello da imitare da parte di quella piccola borghesia che, incarnandosi in lui, evadeva una realtà meschina diventando a sua volta superomistica; fu già dai suoi contemporanei tanto amato quanto rifiutato. Ancora oggi i critici talvolta l’osannano per le sue atmosfere letterarie, magiche e musicali e le sue imprese eroiche; talvolta lo disprezzano per la sua scarsità intellettuale di spirito critico, di profondità mistica per quelle stesse imprese di guerra da lui composte. Certo è che oggettivamente, al di là di un suo recondito pensiero del fare, rimane il poeta-soldato che ha difeso, pur rischiando la sua vita, davanti a tutto il mondo intero l’italianità e l’Italia stessa, commuovendoci con il lasciarci sofferte e toccanti pagine patriottiche, monito alle generazioni future per un recupero ed un appropriamento delle proprie radici e dell’italianità stessa.

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Il Mito di Gabi - Valter Casagrande - AUDIO

Gabi (in lingua latina Gabii) fu una città del Latium vetus, posta al XII miglio della via Prenestina, che collegava Roma a Præneste, e che secondo Dionigi di Alicarnasso faceva parte della Lega Latina. Le sue cave fornivano un'eccellente pietra da costruzione, il lapis gabinus. Secondo la tradizione fu il luogo dove Romolo e Remo sarebbero stati educati e sarebbe stata loro insegnata la scrittura. A Gabi si rifugiò Tarquinio il Superbo, quando fu espulso dall'Urbe dai cittadini in rivolta che avevano decretato la fine della monarchia e l'esilio perpetuo. Gabi rappresenta il vertice antico di un triangolo con ai lati le cittadine di Tibur (Tivoli), Præneste (Palestrina) e Collatia ( Lunghezza), che nel periodo antico ebbero notevole sviluppo e grande importanza nelle vicende storiche e politiche del Lazio in forza della posizione strategica sulle arterie di collegamento dei percorsi commerciali tra l'Etruria e la Campania. Tra il IX secolo a.C. e VIII secolo a.C. in queste comunità ebbero luogo delle trasformazioni sociali, che portarono alla costituzione di un sistema sociale con la formazione di centri protourbani, anticipatori di quelli urbani propri del territorio laziale latino. Gabi potrebbe essere la città natale del poeta Tibullo. Il sito, che si trova adesso a circa 20 chilometri di distanza da Roma al km 2 della via Prenestina Nuova, era situato lungo il percorso della via Prenestina antica, che attraversava la città, formando l'asse viario principale, via che in precedenza era chiamata via Gabina ( o Gabiense). NEL grande lago prosciugato che costeggiava Gabi, il lago di Castiglione, adesso spuntano balle di fieno, i trattori procedono pigri nel loro andirivieni e il podere quattrocentesco in cima alla collina è rosa e nuovo, con un magazzino dove cassette e cassette di cocci vengono spazzolate, lavate e talvolta ricomposte in anfore o vasi. Sparsi nella campagna intorno - tra il grano, i papaveri e le margherite - tanti ruderi apparentemente indistinti. Sul bordo della conca verde che era stata un vulcano e poi un lago, sta una manciata di case impari, senza ordine né regola, borgate col nome di Osa e Castiglione d' Osa. E' qui, dietro la via Prenestina nuova, al fianco di Pantano Borghese, che sorgeva l' antica Gabii, cittadina potente, al centro di un crocevia di scambi con la Campania di Cuma e l' Etruria di Cerveteri, dai costumi raffinati tanto da generare una leggenda secondo la quale Romolo e Remo vi vennero inviati per la loro formazione. Qui era Gabii, famosa per la sua pietra capace di resistere agli incendi a cui deve forse anche il toponimo, che potrebbe venire da cabum-cavum, luogo delle cave di pietra. Utilizzata per costruire il grande muro che separa la Suburra dal Foro di Augusto, per Ponte Milvio, per la tomba di Cecilia Metella. Gabii, la nemica di Roma ai suoi albori che al solo nominarla destava allarme e preoccupazione. Sono tante le leggende, innumerevoli le attestazioni nei testi dei grandi autori classici che dicono la storia di questa che in origine era, come quasi tutte le città del Latium vetus, una colonia di Alba Longa. Della storia successiva, delle sanguinose lotte per la supremazia parla Dionigi di Alicarnasso e poi ancora Tito Livio. Ma la più nobile delle fonti è Virgilio che nel libro VII dell' Eneide fa menzione del santuario di Giunone gabina quando racconta le fondazioni delle città. E Marziale elogia negli epigrammi i benefìci legati alle terme dove anche Augusto, imperatore della pace, veniva inviato dal suo medico, Antonio Musa Ma anche la storia degli scavi sull' area è corposa. A mettere le mani sulla terra è per primo Ennio Quirino Visconti insieme al principe Camillo Borghese che nel 1792 riconosce la piazza, l' antico foro ed estrae una quantità di statue, vasi, marmi, iscrizioni. Una collezione che viene poi collocata nel Casino dell' Orologio a piazza di Siena, nato per essere Museo Gabino ma destinato a una triste sorte giacché i reperti vennero ceduti a Napoleone Bonaparte e si trovano tuttora al museo del Louvre La necropoli di Osteria dell'Osa La necropoli dell'età del ferro di Osteria dell'Osa è legata con la fiorente Gabi, Le datazioni dei ritrovamenti si situano nel periodo compreso tra il IX e il VI secolo a.C.; la necropoli è composta da circa 800 tombe e sepolture. Nei ritrovamenti vi sono iscrizioni in lingua greca del 650 a.C., le più antiche in Italia in questa lingua (dopo la coppa di Nestore), ed iscrizioni in lingua latina del 750 a.C., che sono le più antiche del mondo in questa lingua. Presso la sezione della protostoria dei popoli latini del Museo nazionale romano sono raccolti i materiali scavati negli ultimi decenni. Quindi il valore strategico della posizione occupata da Gabii, il controllo di rilevanti arterie di collegamento e di tracciati commerciali (ad esempio tra l’Etruria meridionale e la Campania o tra il versante Adriatico) consentono alla città Gabina un notevole sviluppo economico, sociale e politico nella dimensione centrale pre-italica. Difatti nei primi decenni del V secolo a.C., quando Roma sconfisse la Lega Latina (costituita da alcune città che volevano mantenere la propria indipendenza) in prossimità di Gabi ( battaglia del lago Regillo), quest’ultima assunse una potenza e uno splendore mai più eguagliati. L’attività organizzativa e vitale ben nota anche nelle fonti classiche, è ricordata accuratamente dalle narrazioni di Dionigi di Alicarnasso, che menzionava l’invio a Gabi dei giovani Romolo e Remo, presso la comunità del pastore Faustolo, per apprendere, appunto, l’arte della scrittura e delle lettere, della musica e soprattutto dell’utilizzo delle armi. RILESSIONI Faustolo ed Acca Larentia: un pastore ed una prostituta. Quindi secondo la storiografia prevalente romana i figli di una regina, discendente da Enea, Rea Silvia, e del dio Marte, furono formati a Gabii da queste due figure: ACCA LARENZIA (Larentia, altri Laurentia). - Antichissima divinità romana, sulla cui tomba al Velabro il 23 dicembre, giorno dei Larentalia, il flamen Quirinalis e i pontefici celebravano sacrifici funebri (parentatio). Per alcuni (p. es. De Sanctis) essa è la madre dei Lari; altri invece, per la diversa quantità di Lăres e Lārentia, la ritengono una figura Magna Grecia, fusa poi con la divinità del Velabro (Zielinski, Wissowa); per altri infine essa sarebbe la Madre Terra. ( Treccani) ACCA LARENTIA E FAUSTOLO In Acca Larenzia e Faustolo si mescolano mito e leggenda. Da un lato, essa è, un antichissima dea etrusca, acquisita dai Romani come prostituta semidivina protettrice dei plebei. Dopo aver passato una notte di preghiere nel tempio di Eracle, per volere del semidio incontrò un uomo ricchissimo che sposatala, la lasciò erede di una immensa fortuna, che a sua volta lasciò al popolo romano, che festeggiava la donazione con le feste dette Larentali, ricorrevano il 23 dicembre. Più tardi il nome di Acca Larenzia fu attribuito alla moglie del pastore Faustolo che aveva trovato Romolo e Remo. Pur essendo già madre di dodici figli, i cosiddetti fratres arvales, Acca Larenzia allattò e allevò anche Romolo e Remo. La formazione di un’articolata “leggenda” riguardo alla fondazione di Roma conobbe un decisivo impulso in età augustea. Le ragioni di questo sviluppo sono abbastanza chiare: Roma era ormai diventata il centro politico, economico e culturale di tutto il Mediterraneo e Augusto, nella sua vasta opera di riorganizzazione della compagine statale romana, mirava ovviamente a nobilitarne il passato e a dare così ragioni “culturali” del suo dominio sul mondo. Il simbolo su cui si incentra la leggenda è la lupa, divenuta nume tutelare di Roma; la lupa era anche l’animale sacro del dio sabino Mamers, analogo di Marte, ed era anche l’animale tutelare dei latini con il nome di Luperco, mentre per gli etruschi il lupo raffigurava Aita il dio purificatore e fecondatore. Si può supporre che la fusione dei miti sia stata voluta per avere una maggiore coesione tra le diverse etnie. Tutta la simbologia appare incentrata sulla figura dell’animale meglio conosciuto da genti che vivevano di pastorizia e che esorcizzavano i loro timori assegnando al loro potenziale nemico attributi divini. Nella religione primitiva questi animali, lupi ma anche serpenti, rapaci ed i primitivi uri potevano dare la morte ma erano i figli della Dea Madre che era capace di rigenerare ogni cosa. Il culto della Dea Madre era associato ad una caverna che simboleggiava la parte interiore della dea da cui si generava la vita e la grotta dove la lupa portò al riparo i gemelli si chiamò Lupercale. ARVALI (fratres arvāles) Antico collegio sacerdotale romano, di dodici membri, che secondo una remotissima tradizione rappresentavano i dodici figli di Acca Larentia, e di Faustolo e in cui i mitografi riconoscevano una raffigurazione dei dodici mesi. Si dedicavano al culto della terra che nutrisce, invocandola sotto il nome di dea Dia, e il loro anno liturgico, che era anche l'anno di carica dei dignitarî del collegio, andava da una festa delle sementi all'altra Le origini degli Arvali si ricollegano con quella forma della primitiva religione che si riferisce alla coltura dei campi (arva), favorendola con cerimonie sacrificali. La dea Dia, che essi veneravano, era forse la stessa Cerere, e l'insegna propria dei membri del sodalizio era la corona di spighe con bianche bende. I solenni sacrifici dei fratelli Arvali si celebravano precisamente nei giorni delle antichissime Ambarvalia (gli Ambarvali erano una serie di riti che si tenevano nell'antica Roma alla fine di maggio per propiziare la fertilità dei campi, celebrati in onore di Cerere) con i carme arvalico. Il testo del carme arvalico (verso suturnio) in lingua arcaica, divenuta incomprensibile agli stessi Romani dell'età imperiale, comprovano le remote origini del collegio. IL VERSO SATURNIO l'unico verso usato nella poesia latina arcaica, prende il nome dal dio Saturno che, secondo il mito, si era rifugiato nel Lazio dopo la cacciata dal cielo; è detto anche faunio, in onore di Fauno, il dio indigeno che lo avrebbe inventato. Il poeta Ennio scrive che gli antichi canti erano in saturni e che a questo verso ricorrevano i vati e i fauni, intendendo forse così indicare il suo uso nei canti della tradizione religiosa e agreste. È un verso imprevedibile, dalla struttura estremamente fluida sulla cui natura gli studiosi non sono unanimi: ha un ritmo quantitativo, costruito cioè secondo una precisa successione di sillabe lunghe e brevi, oppure accentuativo, basato cioè su una determinata alternanza di sillabe toniche e sillabe atone, oppure, ancora, quantitativo e accentuativo insieme. Il fatto è che nei pochi versi pervenuti, circa duecento tra epigrafici e letterari, non si riscontrano due saturni uguali. È probabile comunque che nei primi secoli il verso avesse un ritmo accentuativo di origine indoeuropea, e successivamente, in fase soprattutto letteraria, diventasse quantitativo, perché più adatto alla natura della lingua latina. CONCLUSIONI Quindi secondo la storiografia romana che, sempre di parte voleva nascondere l'esistenza della storia preromana al fine di esaltare la grandezza di Roma, Romolo e Remo, figli di una Regina e di una divinità, vennero inviati a studiare in un posto molto marginale (Gabii) presso un pastore (Faustolo) ed una prostituta (Acca Larentia). Ogni merito, per quanto avessero costruito nel futuro, sarebbe, quindi, stato solamente loro! La realtà, o meglio l'ipotesi più realistica della quale io sono convinto, è che Gabii era una antichissima città centro della socialità, della cultura e della religione pre-romana. Prima di tutto il suo legame, e forse la sua unitarietà, con Palestrina, l'antica Praeneste, la cui importanza e la cui sacralità sono testimoniate dalla collocazione su una collina difesa da una doppia cinta di mura poligonali. Un tempio, quello della Fortuna Primigenia, che, nonostante le numerose utilizzazioni successive, ha mantenuto la sua forma originale: quella di una Ziqqurat sumero-mesopotamica. Quindi una datazione che, a mio avviso, può risalire a 2000 anni prima della fondazione di Roma. Un'altra Ziqqurat è stata individuata in Sardegna e questo a testimonianza della espansione dell'antica civiltà cancellata dall'evento catastrofico che, probabilmente, attorno al 1600 A.C., ha trasformato la geografia mediterranea. L’esplosione di Thera, un meteorite precipitato, lo spostamento dell’asse terrestre o l’apertura dei Dardanelli, o meglio quello di Gibilterra, un evento distruttivo epocale, o il concatenarsi di più eventi a breve distanza di tempo, ha modificato sostanzialmente la configurazione della terra e, per quel che ci riguarda, del vecchio continente e del mar mediterraneo. Per concludere Gabii, Faustolo e, soprattutto, Acca Larentia sono i veri fondatori di Roma e i Romani che hanno cercato di nascondere tutto con una leggenda, alla fine, non hanno potuto cancellare la cosa più figurativa ed immediata: Il simbolo stesso di Roma che ancora adesso la rappresenta.

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