D'Annunzio - La questione fiumana - Mirella Tribioli

Gabriele (D’Annunzio è il cognome di uno zio adottivo, che peraltro gli piace sentendosi l’Arcangelo annunciatore alle genti), figlio di Francesco Paolo Rapagnetta e Luisa De Benedictis, si dimostra allievo diligente, primeggiando negli studi. Il collegio che frequenterà a Prato nella colta terra toscana, correggerà la sua inflessione dialettale e lo preparerà ad una disinvoltura linguistica. Le chiare attitudini letterarie gli fanno ben presto privilegiare la poesia e Carducci come poeta-vate, in quanto egli stesso si sente predestinato a questo ruolo-vate per il destino della nazione e come celebratore degli eroi. A soli sedici anni, anche per il sostegno economico del padre, contento dell’affermazione di questo figlio prodigio, pubblica Primo vere con grande consapevolezza poetica, compenetrato già in una ricercatezza di stile, che gli sarà del resto consona in tutte le sue produzioni artistiche. Primo vere non sarà altro che l’inizio di una prolifica e poliedrica produzione letteraria, che vede un alternarsi di testi in poesia e prosa, come giornalista, novelliere, romanziere e drammaturgo. In maniera più singolare si potrebbe dire, però, che è la prima guerra mondiale a segnare una divisione nelle opere e nelle gesta di questo scrittore soldato, di questo poeta eroe. Fanno parte del primo momento che vede più preponderante lo scrittore-poeta: Canto novo, L’Isotteo e la Chimera, Elegie romane, Poema paradisiaco, Odi navali, Intermezzo, Laudi, Il piacere, Giovanni Episcopo, L’innocente, Trionfo della morte, Le vergini delle rocce, Il fuoco, Forse che sì forse che no, La Leda senza cigno, Sogno di un mattino di primavera, La città morta, Sogno d’un tramonto di autunno, La Gioconda, La gloria, Francesca da Rimini, La figlia di Jorio, La fiaccola sotto il moggio, Più che l’amore, La nave, Fedra, Le martyre de Saint Sebastien, La crociata degli innocenti, La pisanella, Parisina, Il ferro. Appartengono invece, al secondo momento dello scrittore-soldato: Canzoni delle gesta di oltre mare, Per la più grande Italia, Notturno, La canzone del Quarnaro, Faville del maglio, Canti della guerra latina, Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D’Annunzio tentato di morire, ed ancora i tantissimi discorsi, proclami. Intelligente, spregiudicato cerca con tutti i mezzi notorietà, come quando, in concomitanza alla sua prima pubblicazione, dà ai giornali l’annuncio della sua morte, consapevole che una tale notizia, gli avrebbe portato consenso, come del resto accadde, nel costruirsi un’immagine pubblica. Per lo stesso motivo ama circondarsi di personalità e tale è già il pittore Francesco Paolo Michetti, che diventa suo amico, o la duchessina di Gallese Maria Hardouin, che diventa sua moglie. Una vita prepotentemente all’insegna del clamore, tra sperpero di denaro, amori che vanno e vengono, e in questo non dissimile da suo padre che aveva lasciato la famiglia in disastrosa situazione economica. Consapevole che la poesia non “dà pane” si costringe ad un lavoro di giornalista, ma solo per breve tempo, perché insoddisfatto torna a soli venticinque anni a scegliere di essere letterato, lasciata la moglie e i tre figli. Di lì a seguire sarà solo scrittore, anche perché “nutrito di tanta cultura”, Carducci, Capuana Verga, Flaubert, Maupassant, Zola, Baurget, Barrès, Dostojevsky, sono i suoi riferimenti letterari, che peraltro lo sollecitano ad un superamento del naturalismo, realtà precipua della sua prima opera, per accostarsi ad una introspezione psicologica, che caratterizza sempre più i primi anni del Novecento. L’affermazione di un Decadentismo alla ricerca di miti umani, dettati da scrittori e pensatori come Nietzche, diventeranno altrettanto grandemente significativi per il giovane scrittore. E’ proprio in queste forme decadentistiche che D’Annunzio si identifica col suo ideale di Bellezza e di Forza, nel cantare la natura della sua terra natale, nonché la sua Patria in uno spirito glorioso e sensuale. Sensualismo che gli fa privilegiare le condizioni poco comuni e che travasa nelle sue opere o che talvolta tralascia per intenti politici e irredentistici, delineando la teoria del Superuomo, di un eroe privo, perché no, anche di intenti morali, inteso come è alla violenza e alla forza pur di affermare i suoi istinti. Queste immagini lasciano talvolta un senso di vuoto. L’irrequietezza del suo pensare e del suo agire frastorna e ci rende estranei, ma il più delle volte ci coinvolge, perché la crudeltà come il tramonto, un delitto come un viaggio o una battaglia, fanno parte della vita. La visione “panica” che lo scrittore confronta con il suo stile rivestito di perfezione formale, rende la sua espressione artistica più intensa e stempera la virilità che gli è altrettanto propria e naturale. In questo concerto di sensualismo, naturalismo e di naturalismo sensuale, si raccorda il mito del Superuomo dannunziano di cui si farà interprete ed eroe nella difesa di quella “Vittoria mutilata”, espressione da egli stesso coniata per indicare quella vittoria militare ottenuta in battaglia e vilipesa nelle trattative diplomatiche. D’Annunzio forte della sua vitalità, non era nuovo alle azioni politiche e alla causa italiana: infatti era già stato eletto, come uomo di destra, deputato per la ventesima legislatura del 1897. Aveva profuso tutte le sue energie per la sua riuscita elettorale, come egli stesso aveva testimoniato: “…Torno ora da un giro elettorale ed ho ancora piene le nari di un acre odore umano. Questa impresa può sembrare stolta ed estranea all’arte mia e contraria allo stile di vita mia, ma per giudicare la mia attitudine bisogna attendere l’effetto a cui la mia volontà tende direttamente…”. E, non coerente alla vita politica, ma coerentemente alla vitalità della sua fervida vita, in occasione delle leggi repressive proposte da Pelloux, non si esenta dal sottrarsi a critiche e commenti, passando alla sinistra al grido di “…Passo verso la vita!”. Ed è sempre in questo alternarsi di affermazione artistica e di soldato-eroe, che non è estraneo ad imprese di patriota italiano, quando nel maggio del 1915 predica l’intervento dell’Italia in guerra con accesi discorsi “Per la più grande Italia”: si fa volontario non risparmiandosi nel 1917 come soldato sulle montagne del Carso; come aviatore su Vienna, Pola e Cattaro all’insegna di quel grido greco-romano, da egli stesso riproposto: “Eia, eia, alalà”; subendo il distacco della retina di un occhio in seguito ad un atterraggio rischioso; privilegiando con il suo MAS imprese quali “La beffa di Buccari” del 1918, quando entra nel golfo del Carnaro per gettare in mare bottiglie contenenti messaggi oltraggiosi per il nemico, o quando volando su Vienna, invece di bombe, lancerà volantini per invitare i nemici ad arrendersi. Autocelebrando comunque le proprie imprese in termini sublimi e di eroismo, perché ormai “il dandy” si è trasformato in un superuomo che subordina tutto all’affermazione: Ritornato viene accolto come un valoroso e da qui rinforza il gusto per il gesto eccezionale, spettacolare inimitabile. Il mito dell’eroe, del superuomo non è, però, una condizione dannunziana, visto che già nel seicento e poi con Goethe c’era stato l’anelito da parte delle persone di superare mi propri limiti. L’accezione razzista-nazionalista, testimoniata dal nazismo è però dell’età del poeta. Uomo d’azione, intrepido sostenitore dell’Istria e della Dalmazia in Italia, ma è con l’impresa di Fiume che renderà perenne nel tempo la sua immagine, perché Fiume è per D’Annunzio, come dice in una lettera a Don Rubino suo amico, “Causa Santa…la più pura e la più alta che sia nel mondo …merita…non soltanto la vita, che è lieve, ma ogni altro bene…Io non lascerò Fiume se non morto. Ma neppure morto, ché desidero riposare in vista del Quarnaro, all’ombra di quei lauri”. Del resto, sollecitando già i marinai d’Italia in Fiume italiana e tutti i marinai d’Italia nell’Adriatico italiano, con un fare estetico-politico aveva tratteggiato quell’Adriatico a lui tanto caro perché “… E’ sempre stato per noi un mare di vita perché ci appariva come una forma della nostra passione e come una forma della nostra speranza. Era nostro perché non avevamo mai cessato di volerlo nostro…”. E’ un amplesso sensualistico panico di superomismo quello del poeta nei confronti di Fiume e della Dalmazia, che i trattati della prima guerra mondiale non avevano riconosciuti assegnati all’Italia. Tanto sangue sparso non era riuscito a riscattare l’italianità di un popolo che si era sentito italiano da sempre. Questione fiumana (12 settembre 1919) Aspetto geografico Fiume si sviluppò come città ad ovest del fiume Eneo, corso d’acqua di origine carsica ricco e inesauribile. Porto estremo della Venezia Giulia, situato tra la penisola Appenninica e la Balcanica, si affaccia sul Golfo del Carnaro. Nell’era prebellica la città fu ricchissima di industrie e porto importantissimo. Per questa condizione fortunata nel secolo XIX sorse sul territorio limitrofo politicamente croato una città nuova, Sussak che ne limitò l’economia e l’espansione. Aspetto storico Nel 60 a.C. in questo territorio troviamo un insediamento dei romani: sono di questo periodo notizie di un’area chiamata Tarsatica, centro abitato al di là della fiumara. Nel XIII secolo al posto del nome Tarsatica, come terra fluminis, diventa Fiume. Alla fine dell’impero carolingio passò sotto i Vescovi di Pola, poi sotto i Signori di Duino, i Frangipane e i Conti di Walsee (1400). Nel 1466 sotto il sovrano Federico III d’Asburgo. Venezia la sentiva rivale già da quando si era resa “Libero Comune”; la situazione peggiorò quando scoppiò il conflitto tra Massimiliano di Asburgo e Venezia (Lega di Cambrai). Nel 1627 era dei Gesuiti e in questo periodo ancor più si diffuse la cultura latina e italiana. Successivamente Fiume riuscì a farsi riconoscere autonoma: Maria Teresa volle sottoporla a Trieste ma dovette fare marcia indietro. Nel 1776 divenne porto dell’Ungheria, tramite la Croazia, ma i fiumani protestarono e Maria Teresa la rese autonoma dalla Croazia stessa. Nel 1779 fu riconosciuta “Corpus Separatum” perché annessa alla corona ungarica senza mediazione. Successivamente subì il dominio napoleonico e austriaco e nel 1822 Fiume ritornò alla corona ungarica, cosa gradita ai fiumani perché l’Ungheria da sempre aveva rispettato la lingua, le tradizioni e le istituzioni italiche della città. Nel 1848 la Croazia in seguito ai disordini dell’Ungheria occupò Fiume, cercando di croatizzarla: le opposizioni dei notabili fiumani incoraggiarono l’Ungheria alla riannessione e i croati dovettero accettare tale soluzione (1870). Dopo il ritorno di Fiume sotto gli ungheresi, essi imposero il proprio dominio, ma i fiumani che nei tempi per lingua e costumi, si erano sentiti sempre italiani, cominciarono a pensare all’Italia come Patria e quando scoppiò la prima guerra mondiale, mettendo a confronto l’impero austroungarico e l’Italia stessa, la maggior parte dei fiumani, eccetto gli autonomisti ed i panslavisti scelsero l’Italia. L’Italia era intanto entrata in guerra con delle richieste condivise dall’Intesa, ma il Patto di Londra (26-4-1915) aveva assegnato il porto di Fiume ad altro Stato; nel Trattato di Parigi (10-9-1919) l’Italia reclamò Fiume, ma la neonata Jugoslavia chiese i territori che il Patto aveva assegnato all’Italia, quindi l’Istria, Trieste e la Dalmazia tutta, mentre la Francia e l’Inghilterra negavano l’annessione di Fiume e Wilson, in nome degli Stati Uniti chiedeva all’Italia la rinunzia alla Dalmazia e di Fiume, ma i fiumani si mobilitarono per ottenere l’annessione all’Italia. La Conferenza di Parigi ridusse il contingente italiano nei territori adriatici orientali occupati dopo la vittoria; Gabriele D’Annunzio, animato da fiero spirito nazionalistico e i suoi legionari (nome da lui stesso dato dai soldati a cui si era messo a capo), decisero allora l’occupazione della città (Marcia di Ronchi 12-9-1919), dando luogo alla questione fiumana, in opposizione alle decisioni del governo italiano, determinando una sedizione contro lo Stato stesso. Così facendo D’Annunzio rivendicava quel ruolo di poeta-vate a cui si era sempre sentito chiamato, in virtù di quel superomismo che era diventato la sua fede e di cui viveva l’evoluzione, svincolato da ogni remora etica. D’Annunzio, del resto, era convinto che solo lui, che aveva appoggi dall’Italia, dai paesi alleati e dall’America, avrebbe potuto risolvere tale questione. Tra l’altro con questa scelta non fece che avvalorare lo scopo che aveva perseguito per tutta la vita “votarsi alla gloria”. Un esercito di arditi sempre più numeroso, lo sostenne in questa impresa, condivisa tra l’altro dal politico Benito Mussolini ormai alla guida del partito fascista. Per il poeta-soldato non era, del resto, una condizione nuova dilatare la vita alla legge del “vivere o morire”, “gioia o morire”, nel voler dominare il mondo con il suo istinto, con quel superomismo appunto con il quale tutto è, tutto gli è permesso. E la vita dell’eroe diventa l’essenziale del suo pensiero e non soltanto per le sue opere letterarie. Intanto mentre gli alleati si allontanavano, i fiumani gli affidarono i pieni poteri. Wilson cercò di rendere Fiume Stato indipendente, mentre Nitti tra tentennamenti e ipocrite dichiarazioni prometteva di risolvere la questione. La Iugoslavia, questo nuovo regno dei Serbi, Croati e sloveni (SHS), disattesa da lui come Stato e intesa come una specie di “Malebolge terrestre”, respingeva le pretese italiane di una indipendenza della città. D’Annunzio assumendo i poteri civili rimessigli dal Consiglio Nazionale, proclamò la Reggenza Italiana delineata nella Carta del Carnaro e sostenuta dalla volontà dei fiumani, che con il Proclama del 30 ottobre 1918 avevano già dichiarato liberamente “la dedizione piena e intiera alla madre patria”. Il Trattato di Rapallo del 1920 rendeva, però, Fiume stato indipendente e libero, per ottemperare a quanto stabilito negli accordi internazionali. D’Annunzio e i fiumani non riconobbero il Patto e, alla vigilia del Natale 1920, Fiume fu bombardata dalle navi italiane per ordine del Regio governo. “Il Comandante” nel disperato tentativo di evitare il tragico scontro civile, aveva fatto lanciare dagli aerei fiumani dei volantini sulle truppe del generale Ferrario, recitanti: “Ai fratelli che assediano i fratelli” “…Le vostre madri non sanno che voi siete per compiere il fratricidio. Non sanno che voi martoriate una città non colpevole se non d’aver sempre sofferto per l’Italia, se no d’aver sempre creduto nell’Italia, se non d’esser sempre fedele all’Italia…”. Ed ancora compiute le tragiche giornate del “Natale di sangue”, dove lui stesso fu ferito da calcinacci alla testa ed altri compagni morirono, fece lanciare foglietti volanti su Trieste e Venezia “… il delitto è consumato. La terra di Fiume è insanguinata di sangue fraterno…”. Bellissime e dolorosissime sono le pagine di prosa “Commento tra le tombe” redatte dal poeta per l’evento. D’Annunzio per un cuor patrio che lo chiamava al rispetto dei fiumani, temendo la minaccia della distruzione dei suoi abitanti e della città, decise di lasciare Fiume nella piena libertà d’azione e si dimise rinunciando al comando dei legionari, consapevole di essere stato l’interprete di uno dei momenti più drammatici della nostra storia presente. Fiume ebbe un governo provvisorio retto dal dannunziano Antonio Grossich. Il trattato di Rapallo aveva riconosciuto ai croati Porto Baross, condizione che comportò a Fiume molti disordini per le prevedibili, disastrose conseguenze economiche, ma questo sacrificio era inteso come tributo per l’annessione all’Italia proposta da Mussolini e confermata con il Patto di Roma (27-1-1924). Quel Mussolini che con un colpo di stato con la Marcia su Roma si era garantito il governo, marcia che D’Annunzio non aveva partecipato, pur avendola egli stesso preparata, nella convinzione che questi sarebbe stata solo una meteora di poco conto e tempo. Qui il suo grande errore, perché “il Duce”, pur strumentalizzando la sua figura come poeta ufficiale del fascismo, lo relegò sempre più fuori della vita politica, temendolo come potenziale avversario. D’Annunzio, però, si terrà fuori dalla mischia di quel movimento che pure aveva precorso, allontanandosene ora, non condividendone tutti i punti del programma. Come l’araba fenice che rinasce dalle sue ceneri, si dedicherà alla costruzione della sua casa museo sul Garda con i contributi dello Stato, casa che renderà maestosa e bizzarra nella sua ricerca esasperata di estetismo come aspirazione al sublime, nonché autocelebrativa per magnificare la sua persona: sarà il suo lascito agli italiani, come si evince dall’incisione sul portale d’accesso: “Io ho quel che ho donato”, coerente fino alla fine al suo ideale di persona superomistica, compromessa però da un senso di stanchezza e di morte, condizione che renderà più meditative le sue riflessioni autobiografiche o riguardanti la guerra, determinando il superamento della tensione superomistica stessa e confermandolo poeta più sensibile in questa vulnerabilità della sconfitta. Sprezzante della volgarità della massa, nella sua condizione aristocratica, antidemocratica e di ricerca di sensazioni raffinate, diventato egli stesso fenomeno di massa, determinando il suo successo con una capacità di intuire in anticipo i gusti del pubblico, adeguandovisi: ‘fatto di costume’, modello da imitare da parte di quella piccola borghesia che, incarnandosi in lui, evadeva una realtà meschina diventando a sua volta superomistica; fu già dai suoi contemporanei tanto amato quanto rifiutato. Ancora oggi i critici talvolta l’osannano per le sue atmosfere letterarie, magiche e musicali e le sue imprese eroiche; talvolta lo disprezzano per la sua scarsità intellettuale di spirito critico, di profondità mistica per quelle stesse imprese di guerra da lui composte. Certo è che oggettivamente, al di là di un suo recondito pensiero del fare, rimane il poeta-soldato che ha difeso, pur rischiando la sua vita, davanti a tutto il mondo intero l’italianità e l’Italia stessa, commuovendoci con il lasciarci sofferte e toccanti pagine patriottiche, monito alle generazioni future per un recupero ed un appropriamento delle proprie radici e dell’italianità stessa.

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